La parola al voto. Questo è il giorno in cui si può solo sperare o aver paura. I giochi sono quasi fatti. Il resto sono ipotesi. Molti dicono che queste sono elezioni cruciali, quasi un referendum, un no o un sì per Berlusconi. Non sarà così. La matematica della politica è molto più complessa. Non bastano le addizioni, ci sono sfumature, valutazioni, spigolature, c’è quello che ti aspetti e quello che verrà. Altrimenti sarebbe tutto più facile e al Pdl basterebbe conquistare tre regioni per dire che è andata meglio dell’altra volta. Il Cavaliere in fondo ha già detto che comunque vada non cambia nulla. O quasi. Se il Pdl dovesse perdere di brutto partirebbe l’assedio all’arma bianca al governo, e per un uomo che alla fine deve sempre metterci faccia e energie non sarebbe per nulla facile. È il segnale che aspettano tutti gli integralisti dell’antiberlusconismo, quelli che sognano la rivoluzione delle procure, i predicatori di piazza, salotto e tv, gli eterni secondi, i ministri che studiano da leader, la larga schiatta di chi da una vita va sempre in soccorso del vincitore, i fiutatori di vento, i tifosi buoni per tutte le stagioni, il popolo degli ex. Berlusconi in questi giorni ha urlato da solo per vincere, sarà ancora più solo se perde.
Queste sono le elezioni in cui la Lega guarda il Nord e lo sente suo. Completamente: dal Veneto al Piemonte. È il marchio elettorale di un sogno cominciato tanti anni fa. Casini deve disegnare i confini di quello spazio metafisico chiamato centro.
Non è facile neppure per il Pd. Bersani rischia di capovolgere la legge di Sanremo: comunque vada sarà un insuccesso. I meriti dell’eventuale vittoria andranno tutti agli scamiciati, al popolo viola, a quelli che hanno dato il segno a questa campagna elettorale da guerra civile, quelli che volevano «impiccare» Napolitano. L’ipotetica vittoria della sinistra ha già la firma di Tonino, Travaglio, Santoro e la corte di intellettuali indignati. Bersani finge di non sapere che Di Pietro non gioca contro il Cavaliere, il nemico dichiarato, ma contro la classe dirigente dei suoi vicini di casa. Queste regionali potrebbero indicare chi davvero comanda a sinistra. È per questo che D’Alema si affanna a tessere alleanze bipartisan. Lui conosce i suoi veri avversari. Il suo partito si illude di non saperlo.
Questa è la sfida radicale alla Chiesa. È la Bonino che predica alle porte di San Pietro. È la conquista, il sacco laicista, di Roma. Ma la sua vittoria cambierebbe anche la storia dei Radicali, tramonterebbe l’era Pannella, la politica delle grandi battaglie, la follia visionaria, il tafano sulla pelle della repubblica. Comincerebbe un’altra storia. Quella del «governare», sporcarsi le mani, fare i conti con gli alleati, con la loro sete di poltrone, con i compromessi del sottobosco del potere. Emma Bonino a quel punto è solo un governatore in quota Pd. E Pannella si ritroverebbe nel ruolo del nonno scomodo. La Chiesa intanto aspetta di capire quanto grande è il campo dei suoi nemici. Sta combattendo nella Spagna zapateriana una battaglia senza quartiere. Si domanda se dovrà farlo anche in Liguria, Piemonte e nel santa sanctorum laziale. Alla vigilia del voto i vescovi si sono schierati. Non per la destra, ma per difendere la propria visione del mondo. La Chiesa non è il solo soggetto extrapolitico che guarda a queste elezioni con interesse. C’è anche la nobiltà togata, il partito dei magistrati, che spera di ottenere quel consenso popolare pregustato ai tempi di Tangentopoli. È da allora che questo partito «extraparlamentare» vive nella nostalgia del potere perduto.
Il partito del non voto spera di affossare l’intera classe dirigente italiana.
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