L'editore italiano di Penelope Lively non ha la stessa fiducia del suo collega britannico. Uno dei primi romanzi di quella che sono in tanti a considerare una delle più prestigiose firme del salotto buono della letteratura inglese esce in Italia (da Guanda) con il titolo «Amori imprevisti di un rispettabile biografo». In questo modo tradendo l'icastica formula adottata da Heinemann nel lontano 1984, quando il romanzo uscì per la prima volta nelle librerie del Regno Unito. «According to Mark» rende perfettamente il senso ultimo del romanzo, anche se in inglese può venire spesso associato all'omonimo evangelista. In poche parole si tratta di un romanzo che parla dei punti di vista. E per chi vive di letteratura e per chi con la letteratura si pasce è un argomento a dir poco cruciale.
Per questo lavoro narrativo la celebre scrittrice britannica, nata al Cairo nel 1933 ma cresciuta culturalmente all'università di Oxford (e da allora rimasta stabilmente sul suolo britannico), è stata finalista al prestigioso Booker Prize e il pubblico - come spesso accade nella «perfida Albione» - ha mostrato di condividere i gusti dei critici accreditati. Tanto che Penguin (il corrispettivo del nostro Oscar Mondadori) l'ha ripubblicato subito nel 1985 e da allora costantemente ristampato.
Quella che noi leggiamo oggi, quindi, non è la novità di una prestigiosa scrittrice britannica, che si muove con abilità e intelligenza nei territori della letteratura per adulti come in quello delle storie per bambini, bensì un ripescaggio intelligente da parte di Guanda (che negli anni passati aveva già tradotto alcuni dei suoi romanzi di maggior successo (tra cui il fortunato «La fotografia» e «Incontro in Egitto» con il quale vinse il tanto agognato Booker Prize).
Se non è una novità (almeno per i lettori italiani) è comunque un romanzo che propone un tema estremamente attuale. E lo fa senza lasciarsi per strada i lettori meno forti. E forse da qui che nasce il titolo italiano che ammicca a storie d'amore come se fossero al centro del libro. E in qualche modo lo sono. Il fatto è che dietro il modello che campeggia in primo piano, a volte, sono i dettagli nascosti sul fondo della tela che impreziosiscono il lavoro dell'artista. E in questo caso gli editori inglesi hanno puntato proprio su questo secondo aspetto.
La storia è presto detta. Il protagonista è un biografo, Mark Lemming. Alle prese con il lavoro preparatorio per un volume su uno scrittore famoso tra gli anni Trenta e Cinquanta, e soprattutto sodale dei più bei nomi della letteratura inglese del primo Novecento. L'autore, la cui vita viene indagata, è ovviamente di fantasia (per la cronaca si chiama Gilbert Strong) ma il suo lavoro, le sue idiosincrasie, i suoi snobismi, i suoi vezzi, la sua biblioteca, l'arredamento del suo studio e gli argomenti dei suoi libri (nonché la sua poetica) sono ben più che verosimili. Ovviamente la Lively pesca facile nel pantheon britannico. Prende un po' dall'uno e un po' dall'altro. E lo fa con maestria. Eppure Strong rimane sullo sfondo. Non emerge mai vividamente. Questo libro parla in verità del suo biografo. Delle sue difficoltà a entrare pienamente nella vita di uno scrittore che, come spesso è successo ai suoi colleghi reali, mescola le carte in tavola. Sono in tanti, infatti, i mostri sacri che fingono di scrivere a cuore aperto anche quando vergano le pagine di un diario. La Lively smaschera con una semplicità (e con efficacia) disarmante il narscisismo di chi pensa già alla posterità ancor prima di essere laureato dal pubblico coevo e dalla critica.
E la prova del nove è il solito carteggio segreto. Quello che solitamente resta custodito nel solaio di un improbabile (e inconsapevole) testimone. Quello che ovviamente viene scoperto per caso. Come per il nostro Gilbert Strong. Il futuro «maestro» della letteratura britannica è ancora e soltanto un giovane audace che affronta la più coinvolgente delle esperienze: l'innamoramento. E questo momentaneo incanto rimane immortalato da lettere inequivocabili ma che si discostano vistosamente dal binario nel quale si è consolidata la fama dello scrittore.
Il suo biografo Lemming rimane molto colpito da una frase dello scrittore che, analizzando i meccanismi narrativi, soleva dire: «il romanziere racconta solo i fatti salienti di una vita, saltando tutte le inutili conversazioni e gli unitili passaggi quotidiani». Salva solo ciò che è narrativamente interessante. Anche il romanziere, quindi, come intuisce Lemming, è per sua natura reticente. E l'analisi del lavoro di Strong comparato costantemente a diari, lettere e testimonianze porta il biografo a sentirsi sempre più lontano dall'autenticità della vita che dovrebbe raccontare.
Insomma più cose si sanno, più aumentano i punti di vista, le opinioni e le testimonianze discordanti e più il «detective» resta perplesso sugli esiti dell'indagine.
La Lively ci racconta insomma con la squisita semplicità di un romanziere di razza una storia apparentemente modesta, dietro la quale però emergono prepotentemente delle domande sul fine ultimo dello scrivere e sul ruolo stesso del lettore.
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