La battaglia per il controllo di Generali, che stamattina si avvia alla sua conclusione in assemblea, «ha scosso la foresta pietrificata del capitalismo italiano ma, allo stesso tempo, ha lasciato al mercato una sensazione deriva, di un'ulteriore divisione tra guelfi e ghibellini priva dell'approfondimento che avrebbe portato all'evoluzione del mercato stesso», sostiene Giulio Sapelli, accademico internazionale, economista ed ex dirigente di azienda. A contendersi il timone di Generali (che ha 710 miliardi di asset in gestione) sono Mediobanca, azionista storico del gruppo che, con DeAgostini, ha voluto la lista del cda capitanata dall'ad Philippe Donnet e appoggiata dai fondi, e Francesco Gaetano Caltagirone che ha schierato Luciano Cirinà, ex top manager del Leone, alla guida di una lista sostenuta dagli imprenditori italiani, a loro volta in larga parte soci di Piazzetta Cuccia.
Perché si è arrivati a questo livello di tensione?
«Lo scontro ha manifestato l'insofferenza del capitalismo industriale rispetto al capitalismo finanziario ormai incapace di connettersi all'economia reale. Grandi capitali che sostengono manager stockopzionisti da stipendi stellari concentrati nel garantire un flusso costante di lauti dividendi ai grandi capitali. Ma è stata una battaglia disordinata, gestita male, nell'assordante silenzio delle autorità di mercato che, per lo più, non si sono pronunciate sui temi di governance sollevati».
In quale modo avrebbe potuto essere risolta?
«Un tempo simili scontri, che hanno spaccato azionariato e management, non sarebbero stati neppure iniziati. Si cercava e si trovava un accordo tra soci».
L'opposizione a Mediobanca da parte di uno dei maggiori imprenditori italiani, sostenuto da altri industriali rappresenta la fine di un'epoca?
«Mediobanca ha perso da tempo la sua egemonia. Non riesco a immaginarmi Enrico Cuccia o Vincenzo Maranghi affittare titoli di Generali per il solo scopo di assicurarsi diritti di voto in assemblea. All'epoca la merchant bank non ne avrebbe avuto bisogno. In questo senso si potrebbe dire che Mediobanca ha tradito il suo passato».
Perché non si è aperto il dibattito sulla governance da lei auspicato?
«Prima di tutto occorre chiedersi chi è l'amministratore indipendente, un ruolo che trova sempre più spazio negli attuali board. In teoria si tratta di quel consulente che, non aspettandosi nulla da alcuna delle parti in campo, agisce nel solo interesse societario. È un'attitudine che, mi pare, sia sempre meno in auge tra i componenti dei board».
Qual è il suo giudizio sulla lista del cda?
«In realtà si è parlato di pratiche di governance che non hanno nulla a che vedere con il mondo anglosassone da cui la lista del cda è scaturita come strumento per la migliore gestione societaria nei casi di azionariato diffuso. Situazione quest'ultima non così presente sul mercato italiano. Neppure Generali può essere definita una public company, trattandosi di una società con uno storico nocciolo diffuso di azionisti con cui il management dovrebbe interloquire».
Oggi, in assemblea, i grandi fondi internazionali diverranno
protagonisti dell'esito del voto. Quale sarà il ruolo di questi nel capitalismo italiano?«Quello di assicurare le buone pratiche di governance anche se in Italia, per ora, non vi è una tradizione di attivismo di mercato».
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