Non sempre repetita iuvant. Da amante del teatro qual è, Christine Lagarde ha concesso ieri all'Europarlamento una perfetta replica di quanto mandato in scena in occasione dell'ultima riunione della Bce. È un copione ormai mandato a memoria, con la solita tiritera sul carovita ancora elevato accompagnata dalla «nostra ossessione per il mandato sui prezzi», sull'approccio «basato sui dati» e sulla consapevolezza del dolore inflitto alle famiglie, poiché il 30% ha sulle spalle un mutuo indicizzato. Altrettanto impeccabile la riproposizione di quel passaggio con cui, una decina di giorni fa, l'Eurotower aveva spiegato che i tassi hanno ormai raggiunto livelli che, «mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, daranno un contributo sostanziale al tempestivo ritorno dell'inflazione al nostro obiettivo». Stessa identica frase, ma con due reazioni opposte da parte dei mercati: plaudenti a metà mese nella convinzione che l'era dei restringimenti monetari fosse a fine corsa; in ribasso ieri (-0,6% il Ftse a Milano copme l'Eurostoxx600).
Questa divergenza ha una spiegazione: Francoforte continua a opporre un muro di gomma alla possibilità di cambiare rotta, con una coazione a ripetere preoccupante poiché raggruma la convinzione e la supponenza che l'eurozona non verrà contagiata dalla stagflazione. E invece, basterebbe gettare anche uno sguardo distratto ai Bund tedeschi, il cui rendimento è balzato al 2,78% e ai massimi dal luglio 2011 (l'acme della crisi del debito sovrano), per capire che la Germania è sempre più il malato d'Europa, il Paese in cui l'indice di fiducia delle imprese picchia verso il basso da cinque mesi di seguito, come rivelato ieri dall'Ifo, e che fa allargare le braccia a Standard&Poor's («Ci attendiamo che Berlino si contragga di più dello 0,2% quest'anno»). E se la Germania arranca come una locomotiva ottocentesca davanti a una salita, sono dolori per gran pèarte dei partner di Eurolandia. A cominciare dall'Italia, visto che l'anno scorso l'interscambio commerciale è stato pari a 168 miliardi di euro.
Così, è alla Germania che si deve la crescente avversione al rischio evidenziata ieri dai mercati azionari e che tracima anche sul versante dei titoli di Stato. Lo spread Btp-Bund è salito da inizio mese da 163 a 187 punti, e solo l'ascesa del rendimento del decennale tedesco ha impedito un surriscaldamento superiore e ben più preoccupante. Ma è sul lato dei tassi d'interesse che si percepisce l'allarme, col Btp al 4,68% (sui massimi dalla fine dell'anno scorso) e l'Oat francese al 3,33%, un livello senza riscontri nell'ultimo quinquennio.
Il tutto accade mentre la Bce continua a drenare liquidità (-1.000 miliardi in 12 mesi), all'interno del consiglio si accarezza l'idea di rottamare anzitempo il Pepp (il piano di acquisti contro la pandemia) e il nuovo scudo anti-spread di Francoforte presenta paletti così stringenti per poter entrare in azione da essere un'arma spuntata contro eventuali blitz speculativi. Poi ci sarebbe il mondo reale, dove il petrolio che veleggia verso i 100 dollari al barile non promette nulla di buono.
Ma tranquilli: «Con la crisi energetica che si smorza (sic) - sostiene Madame Bce - i governi possono ritirare le misure di aiuto per evitare pressioni inflazionistiche». Magari con un occhio ai bilanci, poiché «il debito sovrano va abbassato» adottando «politiche anticicliche». Andersen, con le sue fiabe, non avrebbe saputo fare di meglio.
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