Se fosse un romanzo si dovrebbe ispirare a Vendita Galline Km 2, la saga di Delfina e dei suoi amorazzi liberi scritta da Aldo Busi una ventina di anni fa. In realtà la storia della Compagnia di San Paolo, primo azionista di Intesa Sanpaolo, e dei poteri che ci girano intorno ha a che vedere con le galline di Luca Remmert. E con la tribolata, nel senso da lui poco amata, presidenza di Sergio Chiamparino. Remmert dovrà infatti rinunciare per il prossimo anno e mezzo al suo florido e biologico allevamento di galline ovaiole, per occuparsi, si immagina, a tempo pieno della Fondazione. Chiamparino, oramai lo sanno anche i sassi, molla la potente Fondazione e vuole ritornare a fare politica. Chi lo conosce bene la spiega così: «Chiamparino è drogato di politica. Ce l'ha nel sangue. Dopo aver mollato il comune di Torino si sarebbe aspettato da Bersani qualche nuovo ruolo del partito democratico. E invece al massimo lo riceveva Migliavacca (Maurizio ex coordinatore organizzativo del Pd). Ci ha pensato e ha aspettato un po'. Ma quando gli hanno offerto la Fondazione che poteva fare? E ora che si apre la battaglia per la presidenza del Piemonte era inevitabile che si facesse avanti. Era ed è in crisi di astinenza».
Lasciando perdere le motivazioni intimistiche, resta una questione politica finanziaria, non di poco conto. La Compagnia di San Paolo non è esattamente il Rotary (con tutto il rispetto per la nobile associazione), ma il primo azionista della prima banca italiana. E il cambio di guardia ai suoi vertici qualche ripercussione la può avere. Il successore di Chiamparino, Remmert viene considerato un uomo molto vicino all'ex uomo forte di Torino, Enrico Salza. Come quest'ultimo è un liberale (di sinistra) e vicino alla famiglia Agnelli, oggi Elkann. Il suo rapporto con il potente numero uno della Cariplo (Giuseppe Guzzetti), altro azionista di Intesa, sembra più che solido. Per farla breve, il pendolo del controllo della Compagnia (e indirettamente di Intesa) propende ora di più verso la borghesia tradizionale piemontese che verso la politica. Come ha fatto notare Lodovico Festa sul Foglio resta però un sapore amaro in questa vicenda. Non si può considerare la Fondazione un tram su cui salire al bisogno. E la breccia sulla sua politicizzazione è aperta. Con le conseguenze, a cascata, sulla banca che controllano. Con molta lucidità un paio di anni fa l'unico presidente di una Fondazione che ha venduto la sua partecipazione rilevante nella banca da cui originava, e cioè Emmanuele Emanuele (numero uno della Fondazione Roma) nella sua relazione scriveva: «Emerge in modo nettissimo come i comportamenti assunti da gran parte delle Fondazioni di origine bancaria in rapporto alle reiterate ricapitalizzazioni delle banche partecipate fosse frutto di scelte errate che si comprendevano soltanto con la pervicacia dei loro vertici, impegnati a giocare un ruolo da protagonisti negli assetti proprietari delle banche... che così facendo mettevano a repentaglio proprio l'attività di utilità sociale a favore del territorio, che doveva rappresentare il loro principale impegno».
Emanuele ricordava, inoltre, come secondo un'indagine di Mediobanca le prime sei Fondazioni italiani abbiamo distrutto sette miliardi di valore in dieci anni. La sostanza è che nel rapporto tra le Fondazioni e le banche che esse controllano si stanno definendo tre paradigmi. Quello più unico che raro della Fondazione romana che decide di dismettere la sua partecipazione nella banca conferitaria (Capitalia, poi Unicredit) perdendo così ogni ruolo politico-finanziario, e stringendo la propria missione alla migliore gestione del patrimonio, diversificato, e ad opere di utilità sociale. Un secondo polo è quello alla Fondazione Monte dei Paschi di Siena. In cui non si vuole (anche se si dovrà) perdere peso nel controllo della banca conferitaria. E su questo secondo modello si può a buon titolo includere la Compagnia di San Paolo.
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