Così la famiglia si fa beffe di Renzi

di Carlo Lottieri

Gli Agnelli se ne vanno. Quella che era stata la dinastia italiana per eccellenza, nei decenni di quel dopoguerra in cui il mito dell'industria manifatturiera di Torino aveva preso il posto del Risorgimento di Vittorio Emanuele II, è ormai del tutto in altri lidi. Dopo la Fiat e la Ferrari, dopo gli investimenti per acquistare «The Economist» e dopo altre operazioni finanziarie volte a internazionalizzare sempre più attività e capitali, anche la cassaforte di famiglia Exor si piazza a Nord delle Alpi e cerca di trarre vantaggio dalle migliori condizioni che altri ordinamenti riescono a offrire.

La cosa è comprensibile. In una società liberale, ognuno può disporre come vuole dei propri beni e trarre beneficio dalla pluralità dei sistemi esistenti. Bisogna per giunta tenere presente che soltanto la presenza di regole diverse può favorire l'emergere di soluzioni migliori. Nonostante quanto affermano i fautori di un'Europa politicamente unificata e armonizzata dall'alto, le società hanno solo da guadagnare da quella concorrenza istituzionale che spinge a fare il possibile per attrarre imprese e capitali. E quanti, come gli Agnelli, si spostano verso lidi migliori, aiutano questo processo che alla fine avvantaggia tutti.

Certo c'è un «ma». In Italia, la Fiat non ha mai voluto essere un'impresa tra le altre. Se gli Agnelli si sono più volte atteggiati a dinastia, questo è avvenuto perché dalla loro Torino sabauda hanno sempre difeso la centralità della propria impresa entro l'economia nazionale. Celebre è la formula che usò Gianni Agnelli, quando disse che «ciò che è bene per la Fiat è bene per l'Italia». È sulla base di tale tesi che, nel corso dei decenni, il complesso industriale torinese ha ottenuto una quantità impressionante di aiuti, benefici, privilegi e sostegni.

C'è quindi molto di amaro in questa vicenda di un capitalismo all'italiana che gioca sempre la carta del pubblico quando conviene e quella del privato, invece, quando è vantaggioso altrimenti. Siamo alle solite: alla privatizzazione dei profitti e alla pubblicizzazione delle perdite di cui parlava già Ernesto Rossi ne «I padroni del vapore». Il contribuente periodicamente chiamato a finanziare questo o quell'aiuto pubblico (secondo la Cgia di Mestre, solo dal 1977 a oggi più di 7 miliardi) può solo osservare sconsolato che aveva ragione chi ha sempre avversato l'intreccio tra Stato ed economia.

Un'ultima considerazione, infine, tutta legata all'attualità. Gli Agnelli che lasciano l'Italia mandano un segnale politico ben chiaro, poiché in questi anni è emerso più volte e con evidenza il collegamento tra Renzi e Marchionne: che il nostro premier ha sempre elogiato per le sue intenzioni a investire nel Bel Paese.

C'è allora da chiedersi, di fronte all'Exor che emigra nei Paese dei tulipani, chi mai potrà fidarsi di questa Italia del rottamatore, se nemmeno il gruppo industriale più vicino al primo ministro sembra convinto che le riforme avviate e quelle in cantiere produrranno risultati.

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