Oggi, in Italia, la presenza dello Stato è più pervasiva che mai. Vince su tutta la linea. Ma il suo trionfo è la sconfitta del Paese reale. Gli esempi si sprecano. L'esecutivo promette, per l'anno in corso, un piano di dismissioni pari a 18 miliardi. Domando: come si concilia con la possibilità assai concreta della rinazionalizzazione delle autostrade? E ancora: il forziere pubblico di Cassa Depositi e Prestiti (controllata dal Ministero del Tesoro nonché gestore del risparmio postale) «costretta» a investire in Tim, passando dal 4 al 10%; non era forse preferibile dirottare quei denari per grandi opere?
Per non dire dell'odissea Alitalia con lo Stato di nuovo in sella con il risultato più scontato: bruciare altri milioni. E poi le banche, con lo Stato imprenditore coinvolto nelle operazioni di salvataggio di Mps e Carige (per restare agli episodi più eclatanti). Insomma, nel Belpaese le cattive abitudini non finiscono mai in soffitta una volta per tutte. Anzi, tornano puntualmente alla ribalta e ogni volta è peggio della precedente. Sembra proprio che la storia non abbia insegnato nulla. Le ricette che ci vengono imposte sono fallimentari in partenza. Siamo al tempo dello «Stato mania», il che significa una montagna di investimenti pubblici senza senso i cui costi ricadono interamente sulle tasche dei contribuenti. Un quadro della situazione allarmante laddove è una chimera ipotizzare un'inversione di marcia, un albeggiare di crescita economica. Lo Stato imprenditore è la nostra gramigna.
È chiedere la luna (nei giorni che si ricorda l'allunaggio del 1969 mi pare doveroso il riferimento) che questo esecutivo imbarazzante sia costretto a interrompere la propria dannosa attività? Mi piace ricordare il pensiero di quel grande liberista di Ronald Reagan: «Considero tutte le proposte di intervento statale prima di dire no».www.pompeolocatelli.it
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