Lo scivolone di Netflix in Borsa non è una roba da poco conto. In una sola seduta borsistica ha perso 60 miliardi di capitalizzazione: per intendersi, la nostra Eni, tutta intera, con i suoi pozzi, esplorazioni, avviamenti e conoscenze tecniche a Piazza Affari non vale tanti quattrini. Facebook, che oggi si chiama Meta, dai suoi massimi dell'ultimo anno ha perso la metà del proprio valore e cioè la bellezza di 500 miliardi di euro. Per fare un paragone, in questo caso è come se in dodici mesi si fosse volatilizzato l'intero valore della Borsa italiana.
È la fine del mondo tecnologico, dei social media, e dei nuovi editori? Manco per niente. È solo che conviene cambiare paradigma nel valutare queste aziende. Se poi si passa al fintech, cioè ad aziende che applicano la tecnologia e algoritmi alla finanza, le montagne russe sono ancora più spaventose. I private equity investono miliardi di liquidità che hanno in cassa, gettando oltre all'ostacolo il cuore, che però non è il loro e di cui comunque non sono dotati. Abbiamo visto in questi giorni investimenti in aziende del fintech, persino italiano, che varrebbero sulla carta un miliardo di euro, e che bruciano cassa come una bomba al napalm. Ma sono tutti felici e contenti, cercando di dare il pacco finale a qualcun altro.
La società approve.com ha svolto una interessante ricerca su alcuni marchi famosi e che hanno mai fatto un solo dollaro o euro di utile in vita loro. Avete presente il gioco Fortnite, quello che dovrebbe essere fortemente sconsigliato ai vostri figli e che invece ha un successo planetario? Ebbene la società che la produce si chiama Epic, e tutti la vogliono, ma dal 1991 ad oggi non ha mai chiuso un solo bilancio in utile. Airbnb è la dannazione degli hotel di tutto il mondo e nonostante i suoi quindici anni di vita e cinque miliardi di fatturato, ha realizzato zero utili. Come la popolare, anche in Italia, Deliveroo o il sistema di pagamenti Stripe. Ce ne sono altrettante iperfamose in tutto il mondo: aziende che puntano sulla crescita e investono come se non ci fosse un domani.
Erano altri anni, ma nella tecnologia non è sempre andata così. Apple in due anni, e cioè nel 1978, ha iniziato a fare soldi. Google e Intel in tre. Un paio in più la già citata Facebook: per cinque anni non ha fatto utili per poi diventare ciò che è. Amazon ha impiegato più di nove anni per realizzare il suo primo utile aziendale: e se voi ci aveste creduto sin dagli albori, e parliamo del 1994, oggi sareste milionari pur avendo investito poche migliaia di dollari. Discorso simile vale per la mitica Tesla di Musk, il grande critico di Twitter, che ha impiegato 17 anni per vedere il primo nero sul suo conto economico. E pensare che la Ford, sua concorrente americana nelle auto, è l'azienda americana di un certo peso che ha impiegato meno per arrivare al profitto: nata a giugno del 1903, ad ottobre era giù in utile.
Ci sono alcune imprese che puntano al profitto e altre alla crescita anche a scapito del primo. In una finanza sempre più polarizzata è difficile trovare la via di mezzo. Oggi l'ultima riga del conto economico conta sempre di meno. Gli investitori non sono stati spaventati dal fatto che Netflix fosse in rosso, non lo è, ma perché cresce poco, anzi perde abbonati. Stesso discorso per Facebook. Per i piccoli investitori questo modo di ragionare può essere davvero pericoloso.
Rischiano di essere coinvolti dall'ubriacatura, nel bene e nel male, di un mercato che rende favolose le avventure di spendaccioni e drammatiche le storie di prudenti padri di famiglia. Che nel mondo liquido, non ci sono più. E se dovessero esserci non piacciono mica tanto.
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