Le montagne del Wyoming, dove da giovedì va in scena il simposio annuale della Federal Reserve di Jackson Hole, potrebbero essere un punto privilegiato per osservare il Peak Fear, quel picco della paura costituito dai 335mila miliardi di dollari del debito globale. Negli ultimi tre mesi questo mostro silenzioso misurato dall'Institute of International Finance è cresciuto di 1.300 miliardi, facendo lievitare al 333% il suo rapporto col Pil mondiale. Eppure, il capo della Fed, Jerome Powel, non spenderà una parola sull'argomento quando prenderà la parola venerdì prossimo, né i mercati si aspettano che lo faccia.
Le orecchie della comunità finanziaria saranno invece tutte puntate sulla probabile conferma che Powell darà al taglio dei tassi di un quarto di punto in settembre. L'indebolimento del Superindice Usa in luglio (-0,6%), un barometro accurato sulle prospettive del ciclo economico nei prossimi sei mesi, è un altro segnale giunto ieri - dopo quelli sulla risalita della disoccupazione e sul raffreddarsi dell'inflazione - a favore di un allentamento monetario.
Naturalmente, il debito del mondo resta il convitato di pietra al meeting di Jackson Hole. Non fosse altro perché, assieme alla politica di deficit spending abbracciata dai governi per uscire dalla recessione causata dal Covid, le ripetute strette decise dalle banche centrali per contrastare il surriscaldamento dei prezzi sono state responsabili della sua impennata attraverso la risalita dei rendimenti dei titoli del Tesoro. Già nel 2023 il costo degli interessi sul debito ha superato per la prima volta negli Stati Uniti i 1.000 miliardi di dollari.
Da allora la situazione è peggiorata: il debito a stelle e strisce, superiore ai 35mila miliardi, sta crescendo al ritmo di 3.600 miliardi l'anno. Una traiettoria insostenibile, soprattutto alla luce della stima del Congressional Budget Office in base alle quale il pagamento degli interessi ammonterebbe a 78 trilioni di dollari nei prossimi 30 anni. In attesa che la politica decida se aumentare le tasse o tagliare la spesa per provare a ridurre l'indebitamento (un tema spinoso che né Trump né la Harris stanno però affrontando in campagna elettorale), il Tesoro guidato da Janet Yellen sta appiattendo la curva dei rendimenti privilegiando le emissioni a breve termine, in una sorta di QE invisibile che dovrebbe equivalere a un taglio dei tassi chiave di 100 punti base.
Se la Fed aprirà un ciclo di riduzioni del costo del denaro, destinato a esaurirsi non prima del 2025, qualche sollievo per i conti Usa dovrebbe cominciare a manifestarsi. È ciò che sperano anche i Paese emergenti, il cui debito ha oltrepassato la soglia dei 100mila miliardi, un importo quasi doppio rispetto a dieci anni fa.
Gli elevati tassi statunitensi hanno infatti prodotto un duplice effetto su molte di queste nazioni: da un lato, hanno impedito di far leva su una politica monetaria nazionale più morbida per evitare di importare inflazione attraverso la svalutazione delle loro monete; dall'altro lato, hanno portato le spese per onorare il servizio del debito a superare quelle per l'assistenza sanitaria. Motivi più che buoni per sperare che la Fed si dia una mossa.
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