Una è in assetto da combattimento, l'altra è pronta alla resa. Poli opposti. Ma Federal Reserve e la cinese Evergrande hanno ancora qualcosa in comune: il potere di condizionare, pesantemente, i mercati. Dopo mesi di tentennamenti, la prima pare decisa a combattere con ogni mezzo l'inflazione, destinata in novembre a balzare al 6,7%; l'altra vede sempre più vicina la bancarotta avendo già ammesso pubblicamente, venerdì scorso, di non essere in grado di rimborsare, entro ieri, interessi per oltre 80 milioni di dollari.
Di sicuro, entrambe giocano con il fuoco. La Fed lo sa bene. Da quando ha ammesso che l'inflazione non è più da considerarsi transitoria, Jerome Powell ha deciso di indossare i panni del pompiere pronto a domare l'incendio dei prezzi. Ma se qualcosa andasse storto, l'appena riconfermato presidente potrebbe trasformarsi nel piromane che ha mandato in cenere Wall Street e i mercati globali. I primi segnali di nervosismo sono arrivati a più riprese la scorsa settimana, anche se ieri si sono attenuati (+2,1% Milano, +1,8% il Dow Jones). La volontà dichiarata di accelerare i tempi di ritiro del piano di acquisti mensili da 120 miliardi di dollari già incorpora il pericolo di incontrare lungo la strada qualche imprevisto.
Uno di questi, il più insidioso, è la variante Omicron del Covid-19, già presente in un terzo degli Stati Uniti. L'Fmi ha invitato le banche centrali a muoversi con prudenza: «La Bce dovrebbe controllare le pressioni inflazionistiche transitorie e mantenere un orientamento di politica monetaria altamente accomodante»; ma Eccles Building sembra non aver colto il suggerimento. Anzi. Il Wall Street Journal riferiva ieri che l'istituto di Washington è in modalità falco al punto che il tapering potrebbe arrivare al capolinea nel marzo prossimo, lasciando così spazi di manovra per dare un giro di vite ai tassi entro la primavera e non, come previsto, durante l'estate.
Non è solo il carovita, a parere della banca centrale Usa, a legittimare il probabile irrigidimento monetario, ma anche l'andamento del mercato del lavoro e in particolare il calo del tasso di disoccupazione, sceso in novembre al 4,2%, nonostante le assunzioni siano state appena 210mila. La Fed pare dunque convinta che la ripresa si manterrà sufficientemente robusta, così da evitare uno scivolamento in stagflazione che - è ovvio - proprio Powell rischia di innescare. Una battuta azzeccata dice che «l'inflazione è come il dentifricio: una volta che lo tiri fuori, non puoi più rimetterlo dentro». Potrebbe proprio succedere questo a causa di variabili (Covid, colli di bottiglia negli approvvigionamenti, prezzi energetici) che la Fed non può governare.
Salvo colpi di scena, Evergrande non è invece più in grado di governare il proprio destino. Venerdì scorso i creditori hanno chiesto 260 milioni di dollari su titoli della joint venture Jumbo Fortune Enterprises garantiti dalla stessa Evergrande, ma l'ex gigante immobiliare (gravato da debiti per 300 miliardi) ha già dichiarato di non avere fondi per far fronte al pagamento delle cedole, tra cui una da 82 milioni che scadeva ieri, e di voler «lavorare attivamente» con i creditori offshore su un piano di ristrutturazione. A giudicare dal crollo del titolo (-14%), nessuno pare scommettere su un lieto fine.
Pechino sembra voler contenere le ricadute sui proprietari di case, sul sistema finanziario e sull'economia in generale piuttosto che orchestrare un salvataggio, mentre anche Kaisa, un altro grande sviluppatore, potrebbe finire in default questa settimana.
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