Francia, o cara! Anzi, carissima per Google, colta per la seconda volta dall'Authority transalpina con le mani nel sacco. Colpevole su tutta la linea, al punto di pagare senza un fiato un multone da 220 milioni di euro, da sommare all'assegno da 150 milioni già staccato a Parigi giusto un paio di anni fa per violazione delle regole sui cookies, i tracciatori di pubblicità. Oggi come allora, Big G paga per la sua posizione dominante sul mercato della pubblicità online.
Questa volta l'indagine, avviata dopo le denunce presentate nel 2019 dalla News Cop di Robert Murdoch, dal quotidiano Le Figaro e e dal gruppo belga Rossel, si è concentrata sul trattamento preferenziale che il colosso di Mountain View ha riservato al suo server pubblicitario Dfp, lo strumento che permette agli editori di siti e applicazioni di vendere i propri spazi pubblicitari, e alla sua piattaforma di annunci Ssp Adx, che organizza i processi di asta e consente agli editori di vendere le proprie «impressioni» o inventario pubblicitario agli inserzionisti. In pratica, i clienti che cercavano di inserire annunci su siti Internet o app mobili usando piattaforme rivali spesso hanno scoperto di pagare di più rispetto a quelli che utilizzano entrambi i servizi di Google, raggruppati sotto il marchio Google Ad Manager. Così facendo, Google ha esercitato un potere di monopolio sulle vendite in rete e arrecato di conseguenza un danno ai propri concorrenti. L'ammissione di colpa e la promessa di porre fine agli abusi ha evitato al gigante Usa una sanzione ancora più pesante. «Verificheremo e svilupperemo questi cambiamenti nei prossimi mesi prima di implementarli in modo più ampio, inclusi alcuni su scala globale», si legge in una nota del direttore legale di Google France.
Isabelle de Silva, presidente dell'Autorità garante della concorrenza francese, ha dichiarato che la decisione è la prima al mondo «a esaminare i complessi processi di aste algoritmiche attraverso i quali funziona il display della pubblicità online». La sentenza soprattutto l'ennesima prova della pressione crescente cui sono sottoposto le big del settore tech da parte di governi e autorità di vigilanza. La scorsa settimana, l'antitrust europeo e quello inglese hanno acceso un faro su Facebook per il modo in cui usa le informazioni degli inserzionisti, mentre Alphabet è già stata sanzionata dalla Commissione Ue e indagini sono in corso su Amazon e Microsoft.
Anche l'accordo preliminare raggiunto dal G7 sulla minimum tax globale al 15% da imporre alla grandi società, seppur in un contesto di contrasto all'elusione fiscale, indica che un primo passo per arginare lo strapotere delle multinazionali. Salutata con favore da Facebook, Amazon e Apple, l'intesa non ha provocato contraccolpi sui mercati. Del resto, prima di arrivare a un vero deal, la strada è ancora molto lunga.
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