La battaglia Antitrust di Google «non è finita» con la storica sentenza del giudice distrettuale americano Amit Mehta che ieri sera ha affermato che il colosso di Mountain View «ha violato la Sezione 2 dello Sherman Act» spendendo decine di miliardi di dollari per assicurarsi una posizione dominante come fornitore di ricerca predefinito a livello mondiale su smartphone e browser web. Ora si guarda alla «fase successiva che sarà altrettanto significativa». Sono stralci presi dal Washington Post dopo la sentenza che rappresenta «la sconfitta più significativa degli ultimi decenni per un colosso della Silicon Valley». Google, in ogni caso, ha subito annunciato che ricorrerà in appello.
Nella sua attesissima sentenza, scrive il quotidiano Usa, «il giudice Amit P. Mehta ha definito Google un monopolista che ha schiacciato la concorrenza e aumentato i prezzi della pubblicità appoggiandosi ad accordi di distribuzione esclusiva che hanno reso il suo motore di ricerca l'opzione predefinita su telefoni e browser. Ma i funzionari governativi devono già affrontare la fase successiva: convincere il giudice ad approvare modifiche alle pratiche commerciali di Google che favoriscano la concorrenza. Mehta sta per decidere quale debba essere il rimedio per la condotta illecita di Google. Ciò comporta un altro scontro che potrebbe avere enormi implicazioni non solo per l'azienda, ma anche per i consumatori e i concorrenti». Il Dipartimento di Giustizia e una coalizione di Stati, rileva il Post, «non hanno delineato i rimedi che potrebbero richiedere, ma l'argomento è stato oggetto di intense speculazioni già prima del processo dello scorso autunno. Una delle azioni più incisive che il giudice potrebbe intraprendere è quella di richiedere a Google di separare il suo motore di ricerca da altre parti della sua attività, come il browser Chrome o il sistema operativo Android».
Un esito difficile perché i Tribunali tendono a evitare queste separazioni. L'alternativa potrebbero essere i rimedi di condotta, come ad esempio richiedere all'azienda di porre fine ai suoi accordi di distribuzione con grandi aziende, come per esempio Apple.
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