I cinesi a caccia dei vigneti d'Italia

Americani e argentini sono già arrivati. Ora tocca ai businessmen di Pechino, Barolo, Brunello e non solo

I cinesi a caccia dei vigneti d'Italia

«Comprate terreni. Non ne fabbricano più». Mark Twain lo diceva già nell'America dell'Ottocento. Ma nell'Italia di oggi la terra da comprare è soprattutto quella coltivata a uva. E non si parla di uve qualsiasi, ma di quelle da cui si ricavano i più celebrati vini tricolori, esportati in tutto il mondo e in grado di strappare quotazioni d'eccezione sui mercati internazionali. Così, se i prezzi del mattone sono negli ultimi anni precipitati, quelli dei vigneti hanno resistito impavidi alla crisi. E anzi, con un aumento del 28% dall'inizio del millennio (fonte: Istituto nazionale di economia agraria), si sono rivelati tra i migliori beni rifugio. Secondo l'Inea in Italia il prezzo medio di un ettaro di terra coltivata (un ettaro corrisponde all'area di un quadrato con 100 metri di lato) si aggira intorno ai 20mila euro. Il valore di un ettaro di vigna è invece quasi doppio e tocca quota 36mila euro. Ma le medie, si sa, non dicono tutto, e per capire fino in fondo la corsa delle quotazioni dei super-vigneti bisogna guardare ai dati di dettaglio raccolti da Winenews.it, uno dei più frequentati siti del settore, che ha preso in esame le zone di origine dei vini più pregiati.

In Alto Adige, dove le vigne sono strappate terrazzamento dopo terrazzamento alle montagne, un ettaro costa ormai la bellezza di 500mila euro. In Valpolicella, la zona della provincia di Verona dove si produce l'Amarone, siamo intorno ai 450mila. Nella zona del Barolo, in Piemonte, i prezzi sono vicini a quota 400mila, ma se si guarda alle sotto-aree di maggior pregio, come quella del Cannubi, si parla di terreni passati di mano a botte di un milione di euro all'ettaro. Lo stesso si può dire di un'area come quella del Cartizze, il cuore del distretto del Prosecco veneto. «Se il benessere di un settore si vede dalla vivacità degli investimenti, il vino italiano sembra godere davvero di ottima salute», spiega Alessandro Rigoli, direttore di Winenews.it.
Ma come si spiegano le quotazioni monstre dei grappoli d'oro italiani? Una prima risposta è quella legata al successo del made in Italy alcolico. Mentre il consumo interno è in continuo calo, un po' per colpa della crisi un po' per le nuove abitudini di consumo, l'export cresce anno dopo anno. Nel 2014 su una produzione vinicola che ha superato il valore di 9,4 miliardi, più di 5 sono finiti all'estero. Il settore sta completando un lungo processo di professionalizzazione. La grandezza media delle aziende cresce (non raggiungeva un ettaro nel 1970, sfiora i 10 oggi), anche se resta piccola in confronto alla concorrenza estera, mentre diminuisce la superficie complessiva coltivata a uva da vino: si è passati dai 970mila ettari ai 656mila del 2014. Nel 1980 il semplice vino da tavola rappresentava il 90% della produzione, oggi è al 30%, il resto sono bottiglie di maggior valore. Più qualità, dunque, e meno quantità.

«Il mercato internazionale e gli investitori riconoscono il ruolo sempre più significativo dei grandi vini e dei grandi marchi italiani», spiega Giuseppe Martelli, direttore generale di Assoenologi, l'associazione dei tecnici del settore. La Campari, multinazionale del beverage che ha deciso di concentrarsi sui superalcolici, ha appena venduto una delle sue aziende vinicole, la Enrico Serafino, a un grande gruppo di matrice statunitense, Krause Holdings, che fa capo alla famiglia omonima e che controlla proprietà immobiliari, catene di negozi e aziende agricole biologiche. I più attesi però non sono gli americani, ma i cinesi. I finanzieri del Paese di mezzo per il momento hanno preso di mira in grande stile la Francia. All'inizio di quest'anno tutti i giornali transalpini hanno sottolineato, con una punta di preoccupazione, il superamento della soglia psicologica dei 100 Château acquistati da gruppi asiatici nella zona del Bordeaux. L'ultimo a comprare è stato James Zhou, diventato miliardario grande alle sue aziende nel settore dell'imballaggio che ha comprato lo Château Renon a Tabanac, una decina di ettari sulla riva destra della Garonna. Appena prima di lui era toccato a Chen Miaolin, tycoon nel settore turistico-immobiliare, che si è aggiudicato uno Château con una trentina di ettari di vigneti e una magione del 1700.

Per i ricchi cinesi comprare una tenuta in Europa, e in Francia in particolare, è uno status symbol con pochi uguali. E del fenomeno ha dovuto occuparsi di recente anche la Commissione anti-corruzione creata dal partito comunista di Pechino che ha denunciato che milioni di soldi sottratti ad aziende pubbliche erano stati utilizzati per comprare 14 Château bordolesi. Oltre alle ragioni di prestigio ci sono, però, solide ragioni di business e di investimento. Per la zona del Bordeaux la Cina è il secondo mercato di export dopo la Gran Bretagna. Solo la città di Hong Kong compra ogni anno vino prodotto in riva alla Garonna per 214 milioni di euro. E la sete del Paese asiatico cresce anno dopo anno. Dal 2008 il consumo è aumentato del 136% e nel 2014 le vendite di vino rosso (preferito, tra l'altro, perché in Cina il colore rosso è considerato benaugurante) hanno toccato l'incredibile cifra di 1,865 miliardi di bottiglie.

Non c'è da meravigliarsi che i produttori italiani si stiano dando da fare per far crescere la loro presenza sul mercato asiatico e colmare il ritardo con i cugini francesi. Due regioni, Veneto e Toscana, hanno firmato accordi quadro per l'export in Cina, mentre tutti i maggiori consorzi vinicoli hanno organizzato lunghe spedizioni a Pechino e dintorni. I businessmen asiatici, da parte loro, dopo lo sbarco in Francia stanno mettendo l'occhio su altre potenziali aree di produzione. «Dopo Cile e Bordeaux vorremmo investire in Australia e in Italia», ha detto a Winenews Li Zefu, responsabile operativo della Cofco Greatwall Winery. E per capire che cosa vorrebbe dire un arrivo in massa degli investitori asiatici basta tenere a mente i dati della sola Cofco: 100mila dipendenti, cinque aziende vitivinicole diverse, 140 milioni di bottiglie prodotte ogni anno, 4 miliardi di fatturato. Una delegazione della società (a cui si sono aggiunti i rappresentanti della Yunna Rose Manor Winery) era in viaggio nei giorni scorsi nella zona del Barolo e in Toscana. E come dimostra la cessione della tenuta dell'ex giocatore e allenatore di calcio Nils Liedholm a una cordata in cui figurano capitali di Hong Kong (vedi anche l'altro articolo in queste pagine), i segni dell'interesse cinese per i vigneti italiani sono ormai evidenti.

In attesa dell'arrivo di soldi stranieri sono però gli acquirenti italiani a mantenere alte le quotazioni delle zone di produzione. Solo negli ultimi mesi è stato un fuoco di fila di acquisizioni importanti. I grandi produttori arricchiscono il portafoglio di prodotti per aumentare il tasso di crescita della propria azienda. E spesso sono protagonisti di altri settori a darsi da fare: Giorgio Rossi Cairo, con la sua Value Partners superconsulente di grandi colossi dell'industria italiana, ha acquistato in gennaio una grande azienda vinicola, Cascina Cucco, a Serralunga d'Alba. Il gruppo farmaceutico Angelini, da 20 anni attivo anche nella produzione vinicola (dall'Amarone al Chianti fino al Brunello), si è aggiudicato lo storico marchio Fazi Battaglia (150 ettari nella zona classica dei Castelli di Jesi, prevalentemente dedicati al Verdicchio). Ultimo a scendere in campo, stando alle indiscrezioni raccolte da Winenews, è stato l'imprenditore italo-argentino Alejandro Bulgheroni, uno dei maggiori operatori nel settore dell'energia in America Latina.

Bulgheroni starebbe acquistando una tenuta nella zona di Bolgheri. L'investimento viene valutato tra i 15 e i 20 milioni di euro. Solo briciole per uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio di 5,5 miliardi di dollari.

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