Sedici giorni per salire in maggioranza e riprendere le redini dell'ex Ilva. Ma potrebbe essere troppo tardi per lo Stato e il governo. Non solo per le condizioni disperate in cui ormai versa l'azienda sotto il profilo economico e produttivo, ma anche per un fantasma che aleggia sul futuro di Taranto: un'istanza di fallimento che potrebbe scattare tra 10 giorni, e fuori tempo massimo, visto che il rinvio dell'assemblea, e quindi di una decisione, è stato fissato (su richiesta del governo) addirittura al 22 dicembre e non all'11 come inizialmente era trapelato. Due settimane che potrebbero trasformarsi nella pietra tombale di quella che è stata la più grande acciaieria in Europa.
Secondo quanto ricostruito dal Giornale, due giorni fa (quindi alla vigilia dell'assemblea di ieri) l'associazione dell'indotto di Taranto (Aigi) ha scritto una lettera al presidente di Acciaierie d'Italia, Franco Bernabè, chiedendo di «definire, in occasione della prossima convocazione di codesto spettabile cda, le soluzioni più opportune a questo status di grave emergenza e di crisi imprenditoriale in cui le nostre associate si sono venute a trovare. Restiamo in attesa di un cortese riscontro entro la data del 15 dicembre 2023 in quanto tale situazione non può essere più procrastinata visti anche gli imminenti adempimenti che le imprese dovranno affrontare entro il mese in corso», scrive e firma il presidente Fabio Greco. In soldoni, se entro metà mese non verranno pagati i crediti scaduti, non potranno essere pagati gli oneri finanziari e sarà fatta istanza di fallimento. Si tratta di fatture contrattualmente scadute a 60 giorni per 70,9 milioni che riguardano 49 aziende dell'indotto. «Molte aziende - spiega la lettera - si trovano nell'incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni ordinarie, quali l'obbligazione retributiva del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti e altri oneri fiscali inerenti a tasse e versamento dell'Iva».
Una situazione delicatissima in un quadro di totale incertezza che rivela come i soci di Acciaierie d'Italia (Mittal 62% e Invitalia 38%) siano ormai definitivamente diventati nemici. Nell'assemblea di ieri è andato in scena un nuovo duro scontro tra le parti. Il socio privato ha presentato una sorta di memoria «di poca sostanza legale, ma in cui recrimina al socio pubblico e allo Stato di non aver fatto la sua parte», spiega una fonte precisando che «Arcelor ha riaffermato il fatto di aver investito 2,2 miliardi mentre il governo avrebbe mancato di procedere con gli adempimenti. Invitalia ha sottoscritto a inizio anno un finanziamento a favore di Acciaierie d'Italia per 680 milioni, tecnicamente un finanziamento soci a futuro aumento di capitale. Per i Mittal, dunque, lo Stato potrebbe convertire il prestito in capitale e, quindi, salire automaticamente in maggioranza. A sua volta il governo ha per legge ancora una disponibilità di 1 miliardo circa per ricapitallizzare la società». Ecco perché il governo ha preso tempo, con questo lunghissimo rinvio. Ieri, non a caso, e in parallelo all'assemblea, un vertice a Palazzo Chigi sarebbe andato in scena sul tema Ilva tra i ministri Adolfo Urso, Giancarlo Giorgetti e Raffaele Fitto.
L'ipotesi è che si stiano cercando in tutti i modi di mobilitare quel miliardo. Una situazione comunque delicata e quasi «quasi fuori tempo massimo» che ieri non ha mancato di suscitare la forte reazione di tutte le sigle sindacali.
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