La ripresa può partire dagli esempi di successo dell’economia dei territori. Come quello di Firenze e della Toscana, con il distretto del lusso ammirato in tutto il mondo. Ma anche quella che era una Regione felice non è rimasta immune dagli effetti della crisi. Dal 2007 il Pil della toscana ha perso sei punti percentuali rispetto al meno nove dell’Italia. Complessivamente il settore manifatturiero (fatta eccezione per la moda, in crescita dell’8%) è arretrato del 20% in dieci anni e le esportazioni (21 miliardi di euro) sono ancora troppo concentrate in Europa (44%). Ma le imprese toscane subiscono anche gli effetti negativi di un Paese che non cresce e di una politica che non è capace di avviare le tanto attese riforme in grado di ridurre la pressione fiscale sulle aziende e i lavoratori e di togliere i vincoli della burocrazia. Allo stesso modo, deve fare i conti con un sistema bancario che, anch’esso colpito dalla crisi e dall’esplosione delle sofferenze, sarà sempre più rigoroso nell’erogazione del credito. Le condizioni per poter ripartire comunque ci sono, e non solo sul fronte dell’export dove il sistema delle Pmi avrebbe bisogno almeno di pochi e forti soggetti in grado di accompagnarle verso la conquista di nuovi mercati. Per questo, così come nella politica, anche nella pubblica amministrazione, servirebbe una razionalizzazione che tagli gli sprechi, le inefficienze e i doppioni combattendo contro gli egoismi, i campanili, la moltiplicazione delle poltrone, aprendo la strada a un sistema nuovo capace di affrontare il dopo-crisi. Sono questi alcuni degli elementi emersi dalla tavola rotonda “Le vie d’uscita dalla crisi: vincoli e opportunità per le imprese” organizzata da Espansione a Firenze. Un incontro, aperto a un pubblico selezionato di operatori del settore economico e finanziario, moderato presso l’Hotel & Resort Villa Tolomei, dal direttore di Espansione, BancaFinanza e Giornale delle Assicurazioni Angela Maria Scullica e da Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea alla Bocconi di Milano. Alla tavola hanno partecipato come relatori: Giovanni Ajassa, responsabile Servizio Studi Bnl-gruppo BNP Paribas, Paolo Bartolozzi, parlamentare europeo, Andrea Calistri, presidente Cna Firenze, Gabriele Chiocci, vicepresidente vicario nazionale Confimi-Impresa, Aldo Cursano, vicepresidente nazionale Fipe-Confcommercio, Vasco Galgani, presidente Camera Commercio di Firenze, Antonio Marino, vicedirettore generale Monte Paschi Siena, Franco Marinoni, direttore generale Confcommercio Toscana, Emiliano Massimini, Network globale-Agenzia per l’internazionalizzazione e Marco Oriolo, vicepresidente nazionale Giovani imprenditori di Confindustria.
Berta Questa crisi segna uno spartiacque per il mondo, l’Europa e in particolare per il nostro Paese. Sono convinto che stiamo vivendo una crisi che scompagina una fase storica della nostra economia e rischia però di non aprirne un’altra. Non si intravede infatti ancora un assetto alternativo a quello preesistente.
Tutti gli indicatori, a cominciare dalla caduta del Pil, dimostrano la difficoltà profonda dell’economia italiana che non riesce a trovare una via d’uscita. Dal 2000 a oggi la nostra produttività non è cresciuta mentre il resto dell’Europa ha registrato un punto di caduta ma anche evidenti tendenze di ripresa. La Germania ha colto l’occasione della crisi per rinsaldare la sua natura di economia volta all’esportazione, arrivando ai numeri impressionanti nel 2012, con un export superiore ai mille miliardi di euro.
I tedeschi hanno scelto un ruolo e un modello economico, noi no. Abbiamo progressivamente smantellato le nostre caratteristiche storiche ma non abbiamo individuato altri capisaldi su cui costruire una prospettiva di sviluppo.
Non sappiamo indicare la strada e non possiamo pensare di crescere se non riparte anche il mercato interno. Siamo un Paese “in divergenza”. Per quasi un secolo abbiamo seguito la convergenza rispetto agli altri Paesi: adesso è evidente che da vent’anni si è interrotto questo processo. L’attuale condizione di stallo rischia di pregiudicare la ripresa. Per questo credo che convenga ripartire dai modelli dei territori. Dobbiamo quindi chiederci come le economie territoriali possano muoversi partendo dalle loro specificità per configurare nuovi modelli di crescita e tentare così di mettere insieme variabili non collegabili su scala nazionale. È questa la sfida dell’Italia.
Come partire dal territorio per realizzare un nuovo modello sviluppo?
Oriolo È ovvio che la ricchezza viene creata dalle imprese. Preso atto che in questi anni è mancata una politica industriale, a cominciare dai territori, se non partiamo da serie riforme è tutto inutile: gli imprenditori italiani continueranno a spostare le produzioni all’estero. Per questo si deve iniziare da una profonda riforma fiscale. Oggi subiamo un global tax rate del 68%. In Germania è al 46%. Questo significa che abbiamo oltre venti punti di differenziale e che la pressione fiscale sulle aziende sta sfiorando la confisca. Gli imprenditori italiani non hanno nulla da invidiare rispetto a quelli degli altri Paesi, anzi le condizioni sfavorevoli del nostro Paese hanno aumentato la loro tempra e aguzzato il loro ingegno. Ma non possiamo correre i cento metri con 20 chili di zavorra sulle spalle. Per questo continueremo a batterci perché vengano ridotte le tasse sulle imprese e sul lavoro. In questo senso il taglio del cuneo fiscale previsto dalla Legge di stabilità è largamente insufficiente.
Eppure non sarebbe difficile trovare le risorse, basterebbe ridurre del 5-10% gli oltre 800 miliardi di spesa pubblica.
Chiocci Senza un rilancio del mercato domestico non c’è futuro. Il mondo delle Pmi vive di domanda interna. Quando un Paese, come l’Italia, non ha risorse per favorire gli investimenti ci si deve domandare se non sia il momento di scelte drastiche oltre il limite della impopolarità. Ma la nostra classe politica, sempre alla ricerca del consenso elettorale, non è in grado di farle.
Con la legge Bassanini del 1990 e poi con la riforma del titolo V abbiamo creato un sistema burocratico e autoreferenziale che pervade tutti i gangli funzionali del Paese e condiziona le scelte delle politica.
Come imprenditori manifatturieri abbiamo dato vita a Confimi-Impresa perché non ci sentivamo più rappresentati dai vecchi modelli, dagli apparati di organizzazioni diventate anch’esse autoreferenziali.
Quindi, la responsabilità di avere creato un Paese soffocato dalle burocrazie, dalle tecnocrazie, non è solo della politica. E dobbiamo prendere atto che non possiamo più permetterci, come ha fatto 15 anni fa la Germania con una profonda riforma, questo sistema con 20 Regioni, più di 100 Province, oltre 8mila Comuni. Serve una riforma radicale del nostro impianto-Paese per liberare decine di miliardi che servano a rilanciare gli investimenti. Non parliamo poi dell’altissima imposizione fiscale. Se oggi è realisticamente difficile ridurre le tasse, bisogna fare il possibile per abbassare in via prioritaria quelle sul lavoro, prima che sulle imprese. E individuare possibili riduzione dei costi di sistema. Per esempio, come stiamo facendo con Confimi-Impresa nei nuovi contratti siglati con le organizzazioni sindacali, rinunciando ai costi della bilateralità.
Calistri A fine anni Ottanta, con il fenomeno dello yuppismo, pensavamo che potevamo essere tutti belli e ricchi senza lavorare. Ma purtroppo ci siamo accorti presto che la realtà era ben diversa. E dovevamo soffrire come gli altri. Quando è venuto il momento di scegliere, abbiamo deciso il modello sbagliato: servizi avanzati ed estenazionalizzazioni delle produzioni. Oggi siamo coscienti che quella scelta, per un Paese manifatturiero, è stata una follia. Allora, come imprenditori della moda, ci siamo resi conti che le associazioni di categoria erano conniventi con la politica. Per questo, era il 1997, abbiamo fondato il Consorzio Centopercento Italiano che ha avuto il merito di far sì che oggi tutto mondo parli del Distretto del lusso toscano, anche se non è stato facile far dialogare le grandi griffe della moda con i piccoli imprenditori locali, Detto questo, speriamo che qualcosa cambi a livello Paese, altrimenti tutti gli sforzi saranno inutili. Il 99,9% dei nostri prodotti vanno all’estero con enormi difficoltà e marginalità vicine allo zero.
Viviamo in un sistema pazzesco che ha generato i 50mila cinesi di Prato. Gli imprenditori fanno quello che possono, ma devono fare i conti con quattro grandi gap: il costo del lavoro, la pressione fiscale, i vincoli della burocrazia e l’alto costo del denaro per cui alcune imprese pagano tassi finiti anche dell’11-12%, cinque volte quelli della Germania. Aspettando che succeda qualcosa a livello nazionale, credo che dobbiamo usare i modelli di successo dei territori, pensare che ci sono distretti che generano risorse ma interrogarci anche su dove finiscono queste risorse.
Massimini Dal 2008 a oggi abbiamo perso l’80% della crescita del quinquennio precedente. Otto start up su dieci chiudono a cinque anni dall’inizio dell’attività. Abbiamo 350mila aziende che cessano l’attività ogni anno, mille al giorno. Siamo ancora nel mezzo della crisi.
Non siamo riusciti a utilizzare la crisi come un’opportunità, anche sul fronte dell’export e dell’internazionalizzazione. È evidente che non si possono affrontare i mercati esteri, spesso più competitivi del nostro, con le logiche del passato. Per questo dobbiamo valorizzare il brand del “made in Italy”.
I mercati internazionali rappresentano una risorsa per i nostri prodotti. Ma i sistemi camerali italiani spesso non parlano tra loro, mancano sinergie per sostenere l’internazionalizzazione delle nostre imprese e i ruoli delle Camere di Commercio, delle associazioni, degli enti locali, si sovrappongono senza produrre un valore aggiunto per le aziende.
Per questo, come Network globale nato all’interno del sistema camerale di Roma e del Lazio, il nostro impegno è quello di mettere a fuoco iniziative per offrire opportunità reali alle aziende e alle start up del nostro territorio auspicando che nel 2014 si riesca a elaborare un programma condiviso a livello nazionale dal sistema camerale che permetta alle aziende italiane, quando vanno all’estero, di essere rappresentate e supportate da un sistema coordinato.
Marinoni Quella che stiamo vivendo non è una crisi: siamo di fronte alla fine di un sistema e non sappiamo ancora che cosa arriverà dopo. Non vale più la vecchia regola per cui le crisi cominciano, arrivano all’apice e poi passano. Non dobbiamo alimentare l’aspettativa che dopo questa crisi sarà tutto come prima e si tornerà anche ai livelli dei consumi di 5 o 10 anni fa. Dobbiamo invece prepararci, e non lo siamo, ad affrontare una situazione diversa. Concordo con i quattro gap evidenziati da Calistri, ma devo aggiungere che non penso che questa classe politica sia capace di avviare le tanto attese profonde riforme. Serve un cambio di sistema, qualcosa che “resetti” quello attuale e si ricominci da capo. E questo non vale solo per la politica. Mi riferisco in particolare al discorso delle competenze e della meritocrazia. Da questo punto di vista il sistema imprenditoriale non è poi messo tanto meglio. Le competenze non si trasmettono con il Dna. Non è un caso che solo il 50% delle imprese sopravvive al ricambio tra la prima e la seconda generazione e addirittura solo il 70% alla terza.
Galgani La politica è lo specchio della nostra società. Anch’io avverto dal mio osservatorio che per troppi anni gli imprenditori hanno scimmiottato la politica. È venuto il momento di semplificare tutto: dalle associazioni ai sindacati al nostro farraginoso sistema camerale.
Ma tutte le volte che si prospetta un riordino, si scatenano le ire dell’inferno. Dobbiamo superare i localismi e gli egoismi di appartenenza. Firenze è ingessata e nessuno ha il coraggio di dire che per tanto tempo, e ancora oggi, è stata amministrata da una aristocrazia non troppo illuminata, salvo casi particolari. E i fiorentini non aristocratici non si sono resi conto che nascono e muoiono vivendo con la rendita del nome città di Firenze. Ma oggi che questa rendita non paga più come nel passato, ci troviamo in difficoltà nel cambiamento. In Toscana ci sono 200 soggetti che si occupano di internazionalizzazione: sarebbe necessaria una razionalizzazione, creare soggetti forti che accompagnino le nostre imprese all’esterno e formule nuovo come le piattaforme distributive che stiamo realizzando a Shanghai e Pechino mentre stiamo lavorando per il Brasile e mi auguro anche per l’India.
Come modificare la mentalità degli italiani, abituati a rendite di posizione?
Bartolozzi La situazione è molto difficile, ma vorrei inserire una nota di ottimismo sul futuro. Sono fiducioso perché credo che l’Europa nell’ultimo anno si sia resa conto del rischio profondo della deindustrializzazione.
Per questo finalmente è stato inserito nel piano 2014-2020 l’obiettivo della reindustrializzazione puntando sulle Pmi che rappresentano il 95% della nostra economia e il 92% di quella europea.
I finanziamenti prevedono interventi per settori strategici ma anche per mercati innovativi come quello della Bioeconomy e per le piccole e medie imprese e anche una sburocratizzazione della gestione dei finanziamenti. Saranno anche privilegiati gli investimenti per aumentare la competitività sui mercati esteri. Prevediamo fondi per l’internazionalizzazione e misure specifiche per combattere il commercio illegale e la falsificazione dei nostri marchi e prodotti. Credo si tratti degli interventi giusti per poter rilanciare l’economia.
Ma l’Italia, un Paese dove sopravvive il socialismo reale, deve superare i suoi problemi ideologici. La Toscana, per esempio, ha perso i fondi per i piani di recupero urbano perché, diversamente da altri Regioni, ha imposto la compartecipazione di soggetti pubblici. Allo stesso modo gli imprenditori devono sapere che l’Europa non finanzia più nulla a fondo perduto ma vuole la responsabilità e la partecipazione dell’operatore economico.
Infine, contro chi invoca un’uscita dall’euro, che secondo uno studio della Commissione determinerebbe una perdita del nostro Pil del 45%, dico che non ci si salva dalla crisi da soli ma tutti insieme.
Qual è il ruolo delle banche per aiutare la ripresa?
Marino Il sistema bancario non poteva non essere toccato dalla crisi che ha portato a toccare livelli di sofferenze, conseguenza dei processi di ristrutturazione delle aziende e anche di errori gestionali nella loro conduzione, che non ci possiamo più permettere. Non possiamo pensare a un nuovo modello senza investimenti, che richiedono periodi molto lunghi.
Oggi gli investimenti nelle infrastrutture, di cui anche la Toscana è molto carente, sono in stallo. Nessuno è così pazzo da investire senza la certezza del ritorno e degli iter autorizzativi. Noi, come banca, siamo stati i primi a finanziare la privatizzazione del sistema acqua.
Ma dopo l’esito del referendum, sfido chiunque sul fatto che qualche straniero torni a investire nelle reti idriche italiane! Passando al tema dell’internazionalizzazione, condivido quanto già espresso sulle modalità diverse oggi di conquistare i mercati stranieri. Se il fenomeno della delocalizzazione ha perso appeal, e sta tornando il modello della produzione in casa, c’è poca attenzione agli investimenti diretti in Italia di cui soffriamo la carenza. Stiamo subendo gli effetti negativi del venire meno dei motori di sviluppo come, per esempio, era stata, con tutti i suoi limiti la Cassa del Mezzogiorno. Nello stesso tempo dobbiamo abituarci a guardare un sistema bancario che avrà sempre più problemi di capitale, una maggiore attenzione alla qualità del credito, meno sportelli e più consulenza. Insomma, le imprese dovranno cominciare a fare a meno di un sistema finanziario bancocentrico e ricercare un maggiore accesso al mercato del capitale che per le Pmi ancora non esiste e dobbiamo iniziare a costruire.
Come si realizza un sistema non bancocentrico?
Ajassa Partirei evidenziando qualche dato. Fatto cento il Pil reale nel 2007, nel 2013 quello della toscana era a 94 rispetto ai 91 dell’Italia, 104 della Germania, 106 degli Usa, 137 nei Paesi emergenti e 168 in Cina. Si comprende quindi come l’Italia soffra per la mancata crescita ma con 60 milioni di abitanti se non riusciamo a fare ripartire il mercato interno non avremo mai una reale ripresa. In Europa finora la nostra classe politica si è nascosta dietro la foglia fico dell’austerità imposto dall’obbligo del rispetto del limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. E come Paese abbiamo firmato il fiscal compact che ci impone per i prossimi vent’anni la riduzione di 72 punti di debito. Il che significa 40 miliardi all’anno. In queste condizioni non ce la faremo mai. Per questo è indispensabile rimetterci a crescere. Ma per crescere serve competitività. In questo senso penso a modelli vincenti come i mini job tedeschi o a strumenti come la fiscalità differenziata che aiuti la reindustrializzazione dei distretti, ai mini-bond o al cosiddetto credito di filiera.
Cursano Quando i costi superano le entrate, come sta avvenendo per molte aziende, significa la fine di un modello produttivo e distributivo. Da anni il nostro sistema produce perdite, registra la chiusura di imprese e negli ultimi due anni la crisi sta attaccando anche le aziende solide che non riescono a restare sul mercato e a rispondere alle aspettative del consumatore. Purtroppo dobbiamo renderci conto che il sistema è cambiato e i processi produttivi vanno ripensati e rifondati. Per questo, come ha fatto anche l’Abi, abbiamo disdettato il contratto di lavoro del nostro settore. Oggi è indispensabile tagliare ciò che non è produttivo ed efficiente, partendo dal costo di impresa. Ma se lo Stato e gli enti locali non avranno lo stesso coraggio, per immettere le risorse indispensabile per la ripresa, il rischio è di fallire tutti.
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