L'emergenza richiede «un livello di ambizione simile a quello del Piano Marshall, e una visione simile a quella del New Deal, ma ora a livello globale». Il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, sprona i governi e le banche centrali a muoversi in modo coordinato per vincere le sfide lanciate dal coronavirus. Serve pensare in grande, senza limiti, come venne fatto negli anni '30 e nel secondo dopoguerra per rimuovere le macerie, ripartire e dare a tutti la speranza di un futuro migliore. La risposta collettiva è finora mancata, ma almeno l'Europa ha cominciato a dare qualche risposta, seppur tardiva. Al bazooka da 750 miliardi di euro della Bce di Christine Lagarde, ha risposto venerdì sera la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen con la sospensione del Patto di stabilità, mossa senza precedenti con cui vengono congelati i vincoli d'indebitamento. Bruxelles ha poi ieri dato il via libera al piano della Francia per garantire fino a 300 miliardi di prestiti alle società colpite dalla pandemia.
Si tratta di primi passi, quantunque non ancora sufficienti. Ecco perché resta in primo piano il dibattito su come reperire ulteriori risorse. Si tratta di un aspetto molto delicato. Un conto è infatti infrangere un tabù che sembrava inattaccabile come quello del deficit al 3% del Pil, tutt'altro discorso è quello relativo alla mutualizzazione dei debiti. È questo l'elemento divisivo e d'intralcio che rischia di ritardare l'introduzione di strumenti in grado di contrastare recessione e speculazione, come i bond europei. E la prova del nove è nella contrapposizione netta di due diversi appelli lanciati ieri in Germania da alcuni economisti. Un sorta di derby senza strette di mano. Con il primo, capeggiato da due pezzi da novanta dell'establishment tedesco come il presidente dell'Ifo Clemens Fuest e da Marcel Fratzscher, consigliere del governo e numero dell'istituto Diw (mai tenero con l'Italia), ma che ha tra i firmatari anche Lucrezia Reichlin, la paladina dell'austerity durante l'era Monti, che sollecita l'utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità, ossia del fondo salva-Stati. È l'argomento clou degli ultimi giorni, dopo che il premier Giuseppe Conte ha sponsorizzato il Mes come veicolo per portare l'Italia fuori dalla crisi, a patto che venga eliminato l'assoggettamento a regole stringenti (ristrutturazione del debito, tagli al welfare, privatizzazioni) che comporta la richiesta di aiuti. Bene: da questo orecchio, Fuest e i suoi sodali proprio non ci vogliono sentire.
Certo, le somme dovrebbero essere distribuite tra tutti gli i Paesi in proporzione alla gravità dei problemi del sistema sanitario e dell'economia e così da evitare «qualsiasi stigma» sui mercati, ma «ogni Stato membro rimarrebbe l'unico responsabile dei propri debiti nei confronti del Mes». Insomma: una volta finita la tempesta perfetta, l'Italia sarebbe chiamata a rientrare dai prestiti ricevuti. Non potendolo fare, finirebbe commissariata.
Diversa è invece la posizione dei firmatari del secondo appello, con cui viene sollecitata l'emissione di eurobond per un controvalore di 1.000 miliardi e si va subito al cuore del problema: la responsabilità deve essere collettiva, proprio per evitare che i Paesi più colpiti scivolino «in una crisi di solvibilità senza colpa propria» per essersi indebitati ulteriormente. Inoltre, la contribuzione agli eurobond dei Paesi membri deve essere proporzionale alle disponibilità di bilancio. Chi può, faccia di più.
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