L'Opec+ lancia il guanto di sfida all'America di Joe Biden con un taglio della produzione di greggio di due milioni di barili al giorno. Ma più che la valenza economica, conta il peso politico della decisione presa ieri a Vienna dai Signori del Petrolio nel format allargato anche alla Russia. A conti fatti (da Goldman Sachs), il contenimento effettivo dell'output non va infatti oltre i 600mila barili, visto che molti Paesi aderenti al Cartello stanno producendo al di sotto delle quote assegnate. Mosca, con i suoi circa 1,3 milioni in meno, è la punta dell'iceberg. Il fatto stesso che nessuno avesse fiatato quando, in piena pandemia, l'organizzazione aveva dato una strizzata ai pozzi da 9,7 milioni di barili al giorno, la dice lunga sulla natura dello scontro.
La Casa Bianca si sente nella sostanza tradita da chi, l'Arabia Saudita, considera(va) un alleato fedele. Ed è la seconda volta in pochi mesi, dopo l'inconcludente vertice di luglio fra il presidente Usa, che premeva per un aumento dell'output, e Mohammed bin Salman. Ruggini nate lì, forse dopo che il successore di Trump aveva rinfacciato al principe ereditario l'omicidio del giornalista Jamal Kashoggi. Ora come allora, la moral suasion tesa a mantenere lo status quo petrolifero è andata a vuoto, nonostante il pressing esercitato dal ministro del Tesoro, Janet Yellen.
«È chiaro che con questa decisione, l'Opec+ si sta allineando alla Russia«, ha detto la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. Neppure troppo velatamente, gli Stati Uniti accusano quindi i sauditi di aver creato un asse col Cremlino. Certo non è passata inosservata la presenza al vertice dell'ex-ministro dell'Energia e attuale vice primo ministro, Alexander Novak. Un peso massimo della nomenclatura con cui Vladimir Putin ha voluto mandare un messaggio forte e chiaro. Anche se sui mercati la scossa non c'è stata (il Brent è salito dell'1,57%, a 93,30 dollari, e il Wti dell'1,6%, a 88 dollari; male invece le Borse, con Milano in calo dell'1,5%), in prospettiva la diminuzione dell'offerta potrebbe stressare le quotazioni (con impatto sull'inflazione), aiutare la Russia a sostenere i costi della guerra in Ucraina, fino a minare il piano del G7 di limitare il prezzo del greggio dello zar Vlad sul mercato globale.
La campana dell'Opec, suona ovviamente un'altra musica: «La decisione è tecnica, non politica», ha detto il ministro dell'Energia degli Emirati Arabi Uniti, Suhail al-Mazroui. L'alibi dei produttori si basa sui crescenti timori di recessione globale e sul 40% perso dalle quotazioni petrolifere dai picchi di giugno. Una picchiata indotta dal rafforzamento del dollaro dopo le ripetute strette monetarie decise dalla Federal Reserve. Un report di martedì di Goldman Sachs era non a caso intitolato «L'Opec sfida la Fed».
Biden è furioso. Il voto di mid-term è alle porte, e i prezzi della benzina potrebbero essere determinanti nell'esito elettorale. Qualcuno, come contromossa, ventila un ulteriore uso delle riserve strategiche, se non un disegno di legge antitrust contro l'Opec. Bloomberg rivela che i funzionari della Casa Bianca stanno discutendo se vietare l'esportazione di benzina, diesel e altri petroli raffinati.
Per l'American Petroleum Institute, un vero harakiri che causerebbe un rincaro di oltre 15 centesimi per gallone per la benzina e di 45 cent per i distillati, da sommare a una perdita del Pil pari a 44 miliardi e a 85mila posti di lavoro già bruciati quest'anno. La posta in gioco è alta: difficile che, questa volta, «Sleepy Joe» si addormenti.
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