Ben Bernanke è forse il più interessante tra i vincitori del Nobel per l'Economia del 2022, nonché il più noto agli addetti ai lavori. Certo, Douglas Diamond e Philip H. Dybvig, rispettivamente docenti all'Università di Chicago e alla Washington University di Saint Louis, hanno curriculum eccellenti e sono i padri del modello a loro intitolato che studia gli effetti della psicologia sulla finanza e il ruolo sociale delle banche. Ma Bernanke è un uomo-simbolo: l'uomo accusato di non aver previsto la crisi dei subprime, anzi di averla incentivata sostenendo alla guida della Fed la politica a favore del debito privato di George W. Bush, ma anche di aver varato col primo quantitative easing la risposta di politica monetaria necessaria; l'uomo che ha inaugurato il decennio di vacche grasse della finanza accentuato poi da Mark Carney in Regno Unito e Mario Draghi in Europa con i due Qe paralleli.
Un simbolo che, venendo premiato, mostra la scelta esplicita della finanza internazionale, rappresentata dalla Banca Reale di Svezia che sceglie quello che non è tra i premi pensati da Alfred Nobel prima della sua morte, ma è sempre stato un manifesto politico: il Nobel per l'Economia ha sempre avuto il potere di dare il crisma della formalità o dell'ufficialità a determinati messaggi politici. E quest'anno il messaggio è chiaro: non dimenticarsi del lascito del lungo decennio del denaro facile delle banche centrali, ricordare il punto fondamentale degli istituti di credito nell'economia, non chiudere necessariamente a un ritorno del quantitative easing.
Larry Neal, oggi Professor Emeritus di Economics alla University of Illinois di Urbana-Champaign, intitolò From Babylon to Bernanke, nel 2015, la nuova edizione del testo accademico da lui realizzato sulla storia della finanza mondiale, indicando nell'era inaugurata dall'Economista di Princeton l'ultima svolta, quella della discesa in campo decisa e vigorosa delle banche centrali. Bernanke fu un governatore atipico per la Fed: figlio dell'accademia, economista a Princeton, mai entusiasta sostenitore dell'iper-globalizzazione finanziaria, già nei primi Anni Duemila, a capo del dipartimento economico del suo ateneo, avvertiva sulla necessità di non considerare perenne la fase di crescita degli Anni Novanta, durante i quali i cicli economici tradizionali erano diminuiti in volatilità negli ultimi decenni a causa dei cambiamenti strutturali che si sono verificati nell'economia internazionale. Da capo dei consiglieri economici di Bush (2005-2006) e nel primo biennio della Fed (2006-2008) applicò quelle politiche di sostegno all'indebitamento privato per cui è stato criticato, ma ebbe la lucidità di cambiare rotta negli anni successivi. Reagendo nel pieno dello tsunami scatenato da Lehmann Brothers facendo aprire gli occhi a molti politici del Partito Repubblicano con lucidità: davanti al buco colossale, oltre 200 miliardi di dollari che aveva accumulato la Banca Bernanke capì, come ha scritto nelle sue memorie nel 2015 (The Courage to Act) che la banca non poteva essere salvata. Ma aprì al sostegno massiccio della Federal Reserve, assieme al Segretario al Tesoro Henry Paulson, all'economia reale e alle banche in piena crisi.
Bernanke, in sostanza, portò le banche centrali a fare politica e a non limitarsi ad essere un attore di governo e controllo della politica economica; il suo libro, 21st Century Monetary Policy, offre un resoconto lucido dell'evoluzione delle banche centrali e della banca centrale degli Stati Uniti dalla "grande inflazione" della fine degli anni 1960, 1970 e primi anni 1980 ad oggi e nel futuro. Senza dirlo esplicitamente, Bernanke aprì la strada del ritorno a John Maynard Keynes delle economie occidentali travolte dalla crisi. Un ritorno che si fondò sul superamento del mito del pareggio di bilancio e del controllo dei prezzi e riportò il tema della piena occupazione, sostenuto dalla sinergia tra politica fiscale e monetaria, al centro della discussione. Gli Usa hanno seguito questo principio nell'era Obama e Trump, l'Europa ci è, in parte, arrivata solo col Covid-19.
Bernanke, inoltre, forte della sua analisi della Grande Depressione del 1929-1930 – in cui ha dimostrato che le corse agli sportelli erano state un fattore decisivo per accelerare il collasso del sistema - agì per prevenire fallimenti a catena degli istituti e riportare al dialogo politica ed economia. Il suo grande contributo è stato, nei fatti, lo stimolo alla politica sul superamento della retorica sul governo "autoregolato" dell'economia.
Quattordici anni dopo Lehmann Brothers e tredici dopo esser stato nominato "Uomo dell'anno" da Time, il 69enne Bernanke è stato premiato in una fase in cui gli Usa e l'Europa stanno iniziando sulla scia dell'inflazione la Grande Ritirata dalle politiche espansive. E il "voto" espresso con il premio a Bernanke e ai due economisti premiati assieme a lui è quello di un sistema finanziario che da un lato vuole tornare banco-centrico e dall'altro ricorda che il quantitative easing è stato, per la finanza, un periodo di vacche grasse e dilatazione borsistica che sarà difficile dimenticare ora che l'inflazione post-Covid ha riportato sulla terra molti istituti centrali, costretti ad alzare i tassi.
Da un lato, Bernanke ha sicuramente salvato dalla sua sicumera un sistema che pareva essere governato dall'autocoscienza del mercati per volontà degli stessi decisori politici; dall'altro ha però inaugurato una fase in cui l'osmosi tra banche centrali e mercati è stata tale da rendere le prime dipendenti dall'accrescimento delle borse per giustificare le loro politiche espansive e i secondi assuefatti dall'idea che i tassi bassi e l'espansione monetaria sarebbero durati per sempre. Oggi tutto sembra cambiare, ma la finanza vuole tornare a quello che a suo avviso era un periodo di relativa prevedibilità e sicurezza. Totalmente diverso dal caos attuale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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