Nuove sfide per il settore

Politiche commerciali, modelli organizzativi e di business: la distribuzione finanziaria è in evoluzione. Come? Se ne è discusso in una tavola rotonda di BancaFinanza

In questi anni di crisi finanziaria si sono presi una bella rivincita. Perché se il risparmio gestito è riuscito a tenere, il merito va alle reti dei promotori finanziari che hanno presidiato un mercato abbandonato dalle banche. Quella del promotore finanziario infatti resta una professione vitale, in un contesto di ridimensionamento. Tanto che i professionisti attivi, anche per il consolidamento avvenuto nel settore, sono scesi a circa 25mila e la quota di risparmio gestito delle reti è rimasta ferma in questi anni alla percentuale del 7%. Negli ultimi mesi si è assistito a un ritorno d’interesse da parte delle banche, ma è difficile capire se si tratti di un cambio di strategia o di una fase congiunturale dovuta all’eccesso di liquidità fornito dalla Bce. In qualsiasi caso, il settore del risparmio gestito e della consulenza offre ancora interessanti opportunità di crescere. Ma per coglierle bisogna investire sull’aggiornamento professionale, favorire il ricambio generazionale e l’ingresso degli “esuberi” bancari, definire anche a livello europeo regole chiare e trasparenti per tutti gli operatori senza puntare su un unico modello organizzativo ma lasciando libertà di scelta, anche per quanto riguarda le politiche di remunerazione. Sono questi alcuni degli aspetti emersi nella tavola rotonda I promotori finanziari tra politica delle reti ed evoluzione del business organizzata da BancaFinanza. Alla tavola, moderata dal direttore di BancaFinanza, Angela Maria Scullica e da Achille Perego, caposervizio di economia e finanza di QN (Quotidiano nazionale) hanno partecipato: Stefano Bazza, direttore area crediti e operations di Ubi Banca private investment; Silvano Bramati, co-direttore commerciale di Azimut; Luca Mainò, consigliere delegato di Consultique sim; Antonio Marangi, direttore mercato e consigliere delegato di Banca Ipibi; Germana Martano, direttore generale di Anasf, e Gabriele Villa, head of private investors Lse group Borsa Italiana.

Domanda. In questi anni il bilancio delle reti è stato molto positivo, a cominciare dalla fiducia riconosciuta dai clienti ai promotori finanziari. Che cosa c’è dietro questo risultato?

Martano. Girerei un po’ provocatoriamente la domanda, chiedendo come mai le banche non sono andate così bene nella raccolta di risparmio mentre le Reti in questi anni hanno dimostrato di aver saputo mantenere alta l’attenzione sul risparmio degli italiani. Se l’industria dei fondi ha retto lo si deve al fatto che sono stati i promotori finanziari a compensare i flussi in uscita dal mondo bancario che, in base ai dati di Assogestioni, solo negli ultimi due-tre mesi ha invertito positivamente il trend. Le banche in questi anni sono state occupate da altri temi, come la mancanza di liquidità e solo ora stiamo assistendo a un risveglio che, mi auguro, non sia temporaneo ma duraturo. Contemporaneamente stiamo registrando un notevole afflusso di richieste di candidati per l’iscrizione all’Albo dei promotori, in gran parte provenienti dal mondo bancario. Se si tratta di un investimento delle banche nel mondo della promozione finanziaria, ben venga. Sul mercato c’è posto per tutti. La speranza, ma anche l’invito, è che questa attenzione non sia solo un modo per affrontare il tema esuberi bancari ma per investire risorse su chi può fare meglio questo mestiere. C’è di più, farei anche un po’ di autocritica: come mai, se le reti hanno tenuto in questi anni il risparmio gestito degli italiani, la loro quota di penetrazione sul mercato è rimasta ferma al 7%? A mio giudizio, perché esiste un limite fisico al tempo che ogni singolo può dedicare ai propri clienti. In questi anni, come conseguenza del consolidamento del settore, il numero dei promotori è diminuito e oggi quelli attivi sono solo circa 25mila. Il loro portafoglio medio è aumentato ma il numero di clienti a cui possono dedicare in un giorno il loro tempo è limitato. Per questo esiste lo spazio per aumentare il numero di professionisti e in questo possono sicuramente investire anche le banche.

Bazza. Esordirei con una precisazione. Faccio parte di un gruppo bancario tradizionale, uno dei maggiori gruppi italiani, che ha una forte presenza sul territorio con le banche commerciali del gruppo; in questo contesto Ubi Banca private investment si differenzia dalle altre banche del gruppo poiché conferisce mandato diretto alla propria rete di promotori, quindi a liberi professionisti che svolgono un’attività specifica fuori sede, oltre ad avere anche un’area di business all’interno della quale ci sono promotori finanziari “private” dipendenti. Ubi Banca private investment rappresenta quindi la banca specializzata nel fuori sede del gruppo Ubi. I promotori finanziari per noi hanno rappresentato in questi anni, e continuano a farlo, gli specialisti del risparmio che vanno a casa del cliente per conquistare nuovi segmenti di mercato. Non è un caso se abbiamo una raccolta positiva e continuiamo a crescere, tra l’altro in modo profittevole come dimostra anche il conto economico con un 2012 che si è chiuso in attivo. Non c’è dubbio poi che il promotore finanziario sia un professionista percepito dal mercato come colui che dà molta soddisfazione al cliente. Anche le nostre indagini interne ed esterne dimostrano che oltre il 95% dei clienti percepisce il promotore in modo positivo. Non è lo stesso riscontro che viene riservato al sistema bancario tradizionale in generale anche se, è giusto sottolinearlo, sui giornali fa più audience la notizia di uno scandalo che non le moltissime attività normali che creano soddisfazione tra i clienti.

Bramati. Ci sono due aspetti che fotografano lo stato di salute delle reti: il numero dei promotori finanziari e la raccolta. Il numero, a parte il risveglio degli ultimi mesi, ci dice che in questi anni si è verificata una selezione naturale, frutto anche del consolidamento degli operatori. Quindi il settore appare in forte contrazione e senza un grande futuro. La raccolta delle reti, invece, presenta buoni risultati che testimoniano come la professione sia viva. Quindi possiamo dire che da una parte si riscontra la crisi del settore, dall’altra la vivacità di questa professione. Detto questo, forse il problema sta a monte di questa situazione e riguarda chi controlla le reti: il settore dei promotori finanziari non rientra fra le priorità strategiche delle banche. Quindi sono pochi, nel mondo delle reti, i porti sicuri per i promotori finanziari. Quelli che offrono loro garanzie professionali e continuità del business. In questo senso l’indipendenza dal mondo bancario è un valore aggiunto enorme. Noi, come Azimut, abbiamo sempre creduto in questo business e nel 2008, nel momento peggiore della crisi finanziaria, abbiamo investito all’estero per sviluppare le Sgr e offrire i migliori prodotti e la migliore consulenza. A differenza della maggioranza delle realtà di estrazione bancaria preoccupate principalmente di tagliare i costi, il nostro obiettivo è sempre stato quello di investire nella crescita: facciamo un mestiere nel quale crediamo. Adesso le banche sembra siano tornate a collocare risparmio gestito, temo però che dietro non ci sia un vero disegno strategico ma solo l’eccesso di liquidità fornita dalla Bce.

D. La mancanza di un Albo dei consulenti finanziari sta favorendo il settore dei promotori?

Maino. Prima del 2007, e quindi prima dell’introduzione della Mifid 1, c’erano 300 professionisti che fornivano consulenza finanziaria e per i quali, nel 2005, abbiamo creato un’associazione di riferimento, la Nafop. Dal 2007 le autorità di vigilanza e il ministero dell’Economia hanno congelato questa professione che è ancora in attesa della costituzione di un Albo specifico. Nel frattempo è fortemente cresciuta la domanda di consulenza indipendente da parte sia degli investitori privati, sia delle imprese o degli enti locali toccati dal problema dei derivati venduti loro dalle banche e che hanno aperto decine di contenziosi. I 300 studi professionali di consulenza indipendente, pochi e sparsi per l’Italia, hanno acquisito clienti e quote di mercato operando a livello territoriale. In gran parte si tratta di professionisti che, dopo dieci, quindici o venti anni di lavoro nelle Reti, nelle banche, nelle Sgr o nei servizi di private banking, si sono messi in proprio e, in tempi non sospetti, prima quindi dell’introduzione della Mifid, hanno creato studi professionali, family office, insieme con avvocati, commercialisti, consulenti aziendali. Negli ultimi due o tre anni, però, abbiamo assistito a una crescita di attività al di fuori dei servizi finanziari regolamentati dalla Mifid e dal Testo unico sulla finanza. Si tratta di una consulenza generica, di analisi e ricerche in materia di investimenti, raccomandazioni generali, perizie per contenziosi finanziari, controversie legali. Servizi accessori e libertà di accesso per gli operatori.

D. Come si sta sviluppando la concorrenza tra la consulenza finanziaria indipendente e le reti di promotori?

Marangi. Premesso che sul mercato operano promotori finanziari con un rapporto da dipendente e promotori con il contratto di agenzia, il settore è in crisi perché, al di là dei bilanci delle aziende, i guadagni pro capite, in questi ultimi anni, hanno subito una forte contrazione. Stiamo assistendo a una crescita di candidati all’iscrizione all’Albo dei promotori perché il sistema bancario sta convincendo i propri collaboratori a svolgere questa professione con un contratto di agenzia, per ridurre i costi interni. C’è una grande banca, per esempio, che consente, a chi fa questa scelta, di portarsi dietro il portafoglio clienti. Ma vorrei sfatare un luogo comune: non è vero che un promotore finanziario con un contratto di agenzia costi meno di un dipendente. Ecco perché assistiamo a una forte selezione e al problema del passaggio generazionale. Svolgere la libera professione mette a dura prova il promotore quindi non stupisce che si arrivi a preferire un rapporto di dipendenza anche se poi, inevitabilmente, si è vincolati dalle indicazioni aziendali. In ogni caso, la vera indipendenza non consiste nel lavorare come liberi professionisti o come dipendenti bensì nell’essere liberi, nell’esercizio della propria professione. Oggi tutti dicono di fare consulenza e di fatto l’ordinamento legislativo non consente di differenziare i diversi ruoli. Banca Ipibi esprime, con una crescita continua da 13 anni, un progetto unico, per ora, sul mercato. Non è una rete classica di promotori finanziari né un modello di servizio di private banking o di consulenza indipendente. Banca Ipibi è riuscita a mettere insieme e a conciliare tutte queste modalità, muovendosi contemporaneamente nel mercato delle reti tradizionali, nel settore bancario, in quello dei consulenti indipendenti e dei family office. Fare il consulente indipendente è sicuramente gratificante tuttavia, per svolgere con professionalità questo mestiere è indispensabile avere alle spalle una struttura organizzata che investa in tecnologia, strumenti informatici, network di informazioni, studi di ricerca e analisi. Banca Ipibi lo fa. Un altro aspetto molto importante, che ci contraddistingue, è che in Ipibi si partecipa alla distribuzione degli utili generati a livello territoriale fino al 50% e questo sia che si operi con un contratto di agenzia, sia da dipendente. La mia sensazione è che ci sia troppa resistenza da parte delle altre società e degli operatori ad accettare il cambiamento e soprattutto ad agire in relazione a esso. Mi sembra che si viva la crisi aspettando semplicemente che passi. Io credo invece che il mercato stia offrendo grandi opportunità. Il ruolo del promotore finanziario è più che mai fondamentale a patto che possa esprimersi liberamente e che non rimanga un soldatino al servizio delle strutture organizzate.

Villa. Come rappresentante di Borsa italiana devo dire che per me i promotori finanziari non sono un cliente di primo livello perché noi ci interfacciamo con i partecipanti diretti del mercato, ovvero le banche e le società di intermediazione. Tuttavia i promotori sono un asset molto importante e il nostro impegno è creare le condizioni affinché tutti questi soggetti possano sviluppare le reti di distribuzione. Detto questo, il nostro compito è anche quello di monitorare i comportamenti degli investitori finali con ricerche periodiche. Dalla nostra ultima indagine, che risale all’ottobre 2012, è emerso come dal 2008 le decisioni di investimento abbiano registrato una diminuzione delle scelte individuali e una crescita degli affidamenti al consulente e all’operatore specializzato. Le decisioni sui titoli azionari prese in autonomia sono scese infatti dal 15% al 12% del totale e le scelte individuali del singolo risparmiatore dal 32% al 29%. Viceversa le decisioni consigliate e accettate sono passate dal 44% al 47% e quelle delegate completamente dal 9% al 12%.

D. In che modo le reti si stanno evolvendo?

Martano. Negli ultimi dieci anni le cinque player principali, alle quali fa capo il 90% del mercato, hanno dato vita a modelli organizzativi differenti ma tutte hanno creato una pluralità di scelta tra case di gestione e prodotti, chi abbinando l’operatività online, chi puntando su alcuni prodotti, chi rivedendo il proprio modello di business. La pluralità di offerta dimostra alle autorità italiane e al legislatore europeo che non ha senso sposare un singolo modello organizzativo, ma che piuttosto servono regole uguali per tutti, funzionali a migliorare la competizione. Le opportunità ci sono e tutte le reti sono in grado di coglierle, ciascuna a suo modo in base alle differenti peculiarità organizzative. In questo scenario si introduce il tema legato alla legislazione europea e all’attività di Esma in tema di remunerazione. Esma ha individuato nei budget di prodotto una pratica da disincentivare, un intervento sulle politiche commerciali su cui si può convenire a patto che non venga a priori indicato un solo modello scartando gli altri. L’importante è che le regole vengano interpretate a livello nazionale favorendo la libera concorrenza senza pregiudizi sui modelli. Detto questo, aggiungo che esiste una fame di consulenza non ancora soddisfatta e alle quale ogni realtà aziendale risponderà con il proprio modello. Ci sarà una rete che propenderà per un modello di consulenza spinto dove il collocamento non fa più la parte del leone e chi farà l’esatto contrario: l’importante è che ci siano regole chiare e uguali per tutti. E se è importante il rispetto delle regole, lo è altrettanto investire sulle risorse umane. Se il consolidamento determinato dalla crisi ha fatto uscire dal mercato operatori che non svolgevano al meglio o appieno questo mestiere, oggi, alla luce anche dei bilanci positivi del 2012 del settore, esistono le condizioni per investire con convinzione sulla formazione di nuove leve.

Bazza. Sono convinto anch’io che il mercato italiano debba mantenere le sue peculiarità. I differenti modelli di impresa e la concorrenza fra di loro sono un valore aggiunto. Per questo il legislatore dovrebbe astenersi da prefigurare aprioristicamente un modello migliore rispetto a un altro. C’è un altro elemento importante che emerge: è vero che stiamo assistendo a un aumento delle richieste di iscrizione all’Albo dei promotori finanziari, in particolare provenienti dal mondo bancario tradizionale. Ma è anche vero che svolgere questa professione non è facile. Il consolidamento di questi anni e quindi l’espulsione dei “rami secchi”, delle figure senza una sostenibilità economica e un portafoglio adeguato, dimostra che questa professione non si improvvisa. Allo stesso modo esiste l’esigenza di un cambio generazionale perché abbiamo perso almeno una generazione. Bisogna investire nella formazione, anche se questo investimento viene ritenuto meno remunerativo, per creare nuove leve che abbiano la consapevolezza che quella del promotore finanziario è una professione importante destinata a durare nel tempo.

Bramati. All’interno del nostro gruppo abbiamo sviluppato diversi modelli organizzativi. Condivido l’opinione di chi sostiene non esista un modello unico vincente, perché la grande differenza viene fatta come sempre dalle persone, dal loro entusiasmo, dalla passione, dallo spirito imprenditoriale. Detto questo, a proposito del tema del ricambio generazionale, non credo che il futuro del nostro settore sia rappresentato solo dai giovani che si formano. Oggi la grande finestra aperta è quella della crisi del mondo bancario. Le reti possono attivarsi per intercettarla. Certo, anche noi abbiamo elaborato progetti destinati al ricambio generazionale come Azimut new generation, che ha favorito il passaggio da padre a figlio con la nascita di diverse aziende familiari, e come Cantera di Az Investimenti finalizzato ad avviare nuovi giovani alla professione. Si tratta comunque di interventi limitati che da soli non possono dare nuova linfa al settore.

D. Come stanno cambiando, alla luce anche delle nuove regole europee, le politiche di remunerazione?

Marangi. Il fatto che da Esma siano arrivate indicazioni molto chiare fa ben sperare. Il legislatore, infatti, sembra puntare la sua attenzione più sulla sostanza che sulla forma. E questo significa accettare una pluralità di soggetti. Il mercato è aperto e ciascuno può essere competitivo in base ai servizi che offre. Questo presuppone che si dimostri il coraggio di recepire il cambiamento e la capacità di identificare chiaramente le differenze e di definire con precisione la propria operatività: oggi sembra che tutti sappiano fare e facciano tutto, ma in realtà non è così. In questo senso anche la politica di remunerazione non rappresenta più un problema. A questo tavolo abbiamo evidenziato quanto sia forte la richiesta di consulenza da parte dei clienti. Ma forte deve essere anche l’impegno nel far crescere la fiducia del cliente in colui che lo affianca nelle scelte di investimento. E questa fiducia è strettamente collegata al ruolo del professionista, alla sua capacità di evolversi e a quanto gli operatori del mercato investono per renderlo più forte e preparato. Per quanto concerne il discorso sui giovani e sul ricambio generazionale penso a quando io ho cominciato questa attività: avevo 21 anni e allora bastava avere tre clienti che investivano in tre Pac per raggiungere uno stipendio mensile. Oggi non è più così. E anche la soluzione delle somme fisse concesse all’inizio dell’attività non ha evitato gli abbandoni della professione dopo qualche anno. Credo sia valida l’idea di affiancare un professionista anziano a uno giovane, replicando quello che è il praticantato negli studi professionali. Questo favorirebbe il passaggio generazione e consentirebbe se non un aumento delle quote del risparmio raccolto e gestito almeno di mantenere quelle attuali. E sarebbe già un buon risultato.

Maino. Anch’io penso che tra i vari modelli di remunerazione non ci sia il modello migliore e quello peggiore. Prendiamo l’esempio degli Stati Uniti. Lì convivono vari modelli (fee only, commission only, fee and commission, fee offset), il mercato prospera e i clienti, in totale trasparenza, decidono a quale soggetto affidarsi. Credo che potremmo prendere come riferimento questo modello mentre l’Europa è spinta da un’eccessiva voglia di regolamentare tutto. Adesso vedremo come prenderanno forma le nuove regole della Mifid 2, anche se già molti Paesi hanno fatto capire come le applicheranno. Oltre alla Gran Bretagna che vieta di percepire commissioni di retrocessione per la consulenza, anche Germania e Olanda sembrano orientate a vietarle e l’Olanda addirittura per tutti i servizi di investimento. E in Spagna già dal 2009, sul sito della Consob spagnola, è presente una sezione aperta al pubblico dove sono elencati circa 200 soggetti (studi o società) che in perfetta adesione alla Mifid, operano in totale libertà, senza conflitti di interesse e con una remunerazione a parcella che può essere controllata online. Come Consultique posso dire che oggi la modalità più “gettonata” è la flat fee. Ossia con il cliente viene stipulato un contratto di consulenza che prevede un canone annuale in funzione del patrimonio investito ma anche del profilo dell’investitore, cioè in base al tempo che gli viene dedicato.

D. Sul mercato esiste ormai un’architettura aperta e quali sono i prodotti maggiormente richiesti alle reti?

Villa. Dal nostro punto di vista gli investitori si stanno orientando su prodotti semplici e trasparenti, che riescono a comprendere in modo diretto. Non a caso abbiamo registrato il grande successo delle ultime quotazioni di società italiane e del Btp Italia. In entrambi i casi si è trattato di operazioni trasparenti, punto fondamentale perché se è importante conoscere il costo del servizio è altrettanto importante essere sicuri del prezzo dello strumento che si ha in portafoglio. Negli ultimi anni infatti l’ingegneria finanziaria ha creato nuove asset class e sovrastrutture su prodotti che hanno un successo di breve periodo ma poi possono avere problemi di liquidità, e i promotori possono avere qualche problema nello spiegarli ai propri clienti. Il prodotto finanziario deve infatti rispettare quello per cui è stato proposto ai risparmiatori e collocato. Le azioni per esempio, con l’obiettivo di fornire un buon rendimento di medio periodo, hanno un elemento di variabilità più alto rispetto ad altri prodotti quali obbligazioni o la semplice liquidità, ma di per sé questo non è un problema se questo fattore viene spiegato al cliente finale.

Martano. Nella sua ultima relazione il presidente della Consob, Vegas, ha lanciato un monito forte sostenendo che se il risparmio gestito è in crisi la colpa è anche del conflitto di interesse e della mancanza di indipendenza delle strutture delle banche e delle sgr. Detto questo, osservando gli ultimi dati di Assoreti, emerge che il mercato si è aperto in questi anni a una struttura multi manager nel collocamento dei fondi comuni e molto meno per i prodotti assicurativi e previdenziali. Nel 2008 la percentuali di fondi e sicav propri era del 70% contro un 30% di prodotti terzi; nel 2012 siamo passati a un rapporto 60%-40%. Di fatto quindi sono state ampliate le strutture aperte. Questa evoluzione però non mostra lo stesso passo nel settore assicurativo, dove la quota di prodotti propri è rimasta all’85% e addirittura nel settore previdenziale è cresciuta dal 91% al 95%.5%.

Bramati. Il tema vero è capire che cosa vuole il mercato e dove sta andando. La fascia di clientela medio-bassa richiede un prodotto gestito mentre quella medio-alta ha esigenze molto diverse che esulano dall’architettura aperta o chiusa e richiedono invece gestioni personalizzate, soluzioni private e una consulenza di alto livello anche per i passaggi generazionali e la tutela dei patrimoni. Oggi tutti collocano tutto, ciò che conta veramente è il servizio al cliente e la qualità della consulenza prestata.

Bazza. Devo dire che la nostra è un’architettura molto aperta. In portafoglio abbiamo il 75% di prodotti di case terze e il 25% di prodotti nostri. Esiste quindi una forte indipendenza della rete, senza imposizione da parte della capogruppo. In generale, dobbiamo anche chiederci se l’aumento del multibrand sia effettivamente dovuto a strategie commerciali e alle esigenze del cliente, oppure sia solo il frutto dei passaggi di portafogli dei promotori finanziari che in questi anni hanno cambiano rete distributiva. E credo sia preponderante questo secondo aspetto.

Marangi. Al di là dei prodotti e degli strumenti finanziari, propri o di terzi, l’aspetto davvero fondamentale, che tutela cliente e consulente, è eliminare la logica commerciale che inevitabilmente condiziona il consulente e che lo spinge a vendere ciò che gli garantisce guadagni maggiori. Ecco il senso profondo della consulenza a pagamento che riconosce e valorizza la professionalità del consulente e salvaguarda il cliente. Noi conosciamo il cliente, e lo profiliamo al meglio, come, per altro, viene previsto anche dalle norme Esma. Con questo obiettivo abbiamo realizzato un software algoritmico che ci permette fino a 3mila tipologie di profilature e che ci consente di individuare il profilo di rischio specifico per ogni singolo cliente. Del resto, dati di fatto negativi come la crisi finanziaria e positivi come l’aumento dell’aspettativa di vita, stanno comportando profondi cambiamenti nelle esigenze di investimento e, per esempio, stanno evidenziando il bisogno di integrare il reddito con prodotti a basso rischio. Alla luce di ciò, in Banca Ipibi, abbiamo ridotto i nostri guadagni, fornendo soluzioni capaci di proteggere il capitale, compresi i Btp Italia. Così oggi, nel portafogli dei nostri clienti, la quota di gestito non supera il 70% mentre il restante 30% è rappresentato da strumenti di liquidità.

Maino. Concordo con Marangi. Anche per noi il vero conflitto d’interesse è rappresentato dal trasferimento di maggiori rischi sul cliente per aumentare i guadagni. Nei nostri portafogli invece sono presenti tutti gli strumenti: amministrato, gestito, fondi, Etf, certificati. Con la massima apertura e flessibilità. Inoltre, fin da quando è nata Consultique nel 2001, abbiamo realizzato una piattaforma di analisi e ricerca in materia di investimenti. Questa piattaforma si è evoluta nel tempo e serve per la nostra attività di consulenza ma viene utilizzata anche dagli studi professionali che si appoggiano a noi. Recentemente ne abbiamo rivisto i contenuti per monitorare al meglio il mercato europeo. Tanto per fare un esempio, oggi teniamo sotto controllo ben 70mila fondi e sicav, oltre a tutti gli Etf.

Mi chiedo: come fa un investitore a scegliere in questo universo? Per i fondi abbiamo creato un modello di selezione che ci ha permesso di individuare una lista di un migliaio di prodotti che viene costantemente monitorata e aggiornata periodicamente, così come le short list di titoli obbligazionari e azionari

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