Senza essere subalterni alla retorica è ancora possibile affermare il peso specifico fondamentale del capitalismo familiare per l'economia italiana? L'ho appreso da una ricerca uscita dall'università Bocconi dal titolo «La resilienza delle imprese familiari imprenditoriali», a firma Fabio Quarato e Carlo Salvato, che offre una risposta empirica alla mia domanda.
Al tempo della pandemia, degli evidenti processi di deglobalizzazione e dell'assenza di politiche industriali strutturali, si è manifestata la capacità di resilienza (non come atteggiamento difensivo davanti alla pesantezza della crisi ma come visione a investire negli anelli portanti della catena del valore) delle medie e anche piccole realtà del nostro capitalismo familiare. E quella capacità, oggi duramente messa alla prova in una fase oltremodo complessa per via di una stagione recessiva densa di insidie, detta la novità: l'espressione del capitalismo familiare nostrano sta mostrando una postura davvero illuminata, possiamo dire al passo con i tempi. Si tratta di imprese che rilanciano la centralità del dialogo con il territorio di appartenenza; che spingono l'acceleratore sul tema cardine dell'innovazione; che hanno superato l'idiosincrasia verso il management (fino a ieri tutto rimaneva esclusivamente o quasi nelle mani della famiglia) e stanno sul mercato confermando la propria storica diffidenza verso la politica, distratta e poco sensibile alle ragioni delle imprese.
Uguale diffidenza esprimono verso le rappresentanze di categorie, in primis la Confindustria e il settore della finanza. Pur ancorate alla propria italianità, esse stanno battendo la strada dell'internazionalizzazione. Insomma, non guardano al proprio ombelico, ma tengono ben alta la testa. In estrema sintesi: più Bruxelles che Roma.
Siamo nel pieno di un processo evolutivo molto interessante: quello di un nuovo modello di capitalismo familiare. Tradizionale e nuovo al tempo stesso. Destinato a ridisegnare il concetto italiano di distretto industriale.
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