Pechino taglia i tassi, ma non basta

Il monito del WSJ: «Il boom della Cina è finito». Prezzi delle case in calo del 15%

Pechino taglia i tassi, ma non basta
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«Il boom della Cina è finito». È un verdetto senza appello quello che arriva dalle colonne del Wall Street Journal, un de profundis per il modello di sviluppo che in 40 anni aveva trasformato un Paese povero e arretrato in un gigante della globalizzazione. Poi, l'inciampo: il settore immobiliare, designato a completare la metamorfosi grazie al contributo dei consumi interni, si è rivelato il Caronte che sta traghettando Pechino in una discesa agli inferi, tra debiti stratosferici, default e bancarotte.

Degli aggressivi stimoli cui fa riferimento il WSJ per evitare l'avvitamento nella stessa spirale che strizzò nella stagnazione il Giappone negli anni '90, impedendone un ritorno ai ritmi ruggenti di sviluppo dei decenni precedenti, non c'è traccia. Anche se alcuni analisti prevedono la messa a punto di maggiori stimoli fiscali, per ora il governo guidato da Li Qiang offre solo provvedimenti di discutibile efficacia. Come la decisione con cui la People's Bank of China (Pbc) ha tagliato ieri di 10 punti base, al 3,45%, il tasso sui prestiti a un anno, ma ha lasciato a sorpresa invariato (al 4,2%) quello quinquennale, cioè il benchmark per i mutui immobiliari. «La politica monetaria cinese potrebbe essere ancora più difficile da leggere», affermano in una nota gli economisti di Citi. Di sicuro, non è in questo modo che si invogliano le famiglie cinesi a investire nel mattone e si inverte una tendenza che ha portato al livello più basso dal 2009 l'erogazione di prestiti anche se, a partire da giugno, 100 città cinesi su 343 hanno abbassato il tasso minimo dei mutui sulle nuove abitazioni.

Malgrado la resilienza di cui parla Pechino (calo del 2,4% dei prezzi delle nuove case rispetto al picco dell'agosto 2021 e quotazioni giù del 6% per quelle esistenti), altri numeri danno il senso di una crisi profonda. Bloomberg ha rivelato che le quotazioni delle case già costruite sono diminuite di almeno il 15% in aree come Shanghai e Shenzhen e in più della metà delle città cinesi di secondo e terzo livello. Inoltre, le difficoltà finanziarie dei promotori immobiliari non riguardano più solo giganti come Evergrande o Country Garden Holdings, ma anche gruppi di emanazione statale: 18 dei 38 costruttori quotati hanno infatti accusato perdite nei primi sei mesi. La Cina «è a corto di cose da costruire», scrive il Wall Street Journal, ma forse il vero problema è che nessuno vuol più rischiare nulla in un contesto d'incertezza nel mercato del lavoro e di rallentamento dell'economia globale.

Appare così sempre più come un miraggio il raggiungimento a fine anno di una crescita del 5%, con probabili ripercussioni sull'economia globale. È in particolare la Germania, dove la Bundesbank prevede stagnazione nel terzo trimestre, a guardare con preoccupazione agli affanni della Cina, uno dei principali mercato di sbocco. Anche se ieri le Borse (+0,81% Milano, +0,3% lo Stoxx600) hanno ben accolto il calo in luglio dei prezzi alla produzione tedeschi (-1,1% mensile, -6% tendenziale), l'Ifo parla di «tempesta in arrivo» nell'edilizia, dove a causa degli alti tassi di interesse e del drastico aumento dei costi di costruzione, il mese scorso il 40,3% delle aziende ha lamentato una carenza di contratti, dopo il 34,5% di giugno.

«Gli ordini esistenti vengono continuamente cancellati; dall'altro, i nuovi ordini sono

sempre meno», sottolinea Wohlrabe Klara Geywitz, ministra tedesca della Casa, dello Sviluppo Urbano e dell'Edilizia. Rimedi? Un pacchetto a sostegno del settore da presentare in settembre. E l'austerity? Auf Wiedersehen.

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