Tutto vero, purtroppo. In Italia si alzano le barricate anche su un tema che dovrebbe trovare unanime consenso. Mi riferisco alla parola merito, inserita esplicitamente come missione nella nuova denominazione del ministero preposto all'istruzione. Per me è ovvio che nel percorso educativo e di formazione scolastica si tenga in gran conto la cultura del merito. Non perseguirlo è un segno di impoverimento. Di grigiore. Della persona, prima di tutto. Così si cresce e si entra nella società senza particolari stimoli. In una sorta di bassa pressione generalizzata. Il merito, invece, è la certificazione della qualità. Per restare ancora un attimo alla scuola, pensiamo ai voti che l'insegnante assegna agli allievi come giudizio sul profitto. Dunque, il merito è strettamente legato al profitto. Al risultato che deriva dall'impegno qualitativo. A come la persona mette a frutto i suoi talenti.
Nell'economia reale questo è di un'evidenza solare. Quando si livella verso il basso gli esiti sono imbarazzanti. Segnano decrescita fino a giungere al vero e proprio blocco. E questo abbiamo avuto modo di verificarlo ampiamente. E continuiamo a farne esperienza. Con la scusa dell'egualitarismo si è reso un cattivo servizio al mercato del lavoro. La qualità della perfomance sul posto di lavoro è fondamentale perché in sua assenza la macchina imprenditoriale si inceppa. I risultati sono fiacchi, cioè deficitari.
La cultura del merito è un magnifico e redditizio acceleratore. Economico e sociale al tempo stesso. Se un certo progresso nel nostro Paese vi è stato lo si deve, in modo particolare, al grande impegno meritocratico di artigiani e piccoli e medi imprenditori. Il cosiddetto popolo dei «Brambilla». Loro sì che hanno investito, ovvero puntato, sui propri talenti.
Con merito indiscutibile. Un successo meritato. Punto. E adesso c'è ancora chi vorrebbe oscurare la cultura del merito. Costoro, coltivatori diretti della retorica e della decrescita infelice, meritano solo di essere bocciati.
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