Serve più cultura assicurativa

Nonostante la crisi, il comparto resta solido, e contribuisce all’assorbimento del debito pubblico.  Ma per svolgere un ruolo più strategico con le imprese, deve comunicare i rischi che corrono. E... Se ne è parlato alla quinta edizione del convegno annuale organizzato dal Giornale delle Assicurazioni

Serve più cultura assicurativa

Qual è lo stato di salute delle assicurazioni? E come possono supportare le imprese ad affrontare una crisi che dura ormai da cinque anni e le sta sfinendo? E ancora: l’essere bene assicurati facilita l’accesso al credito e a condizioni più favorevoli? Come si vede, sotto i riflettori ci sono sempre loro, i piccoli e medi imprenditori, che sono l’ossatura dell’economia nazionale, ma che gestiscono aziende scarsamente patrimonializzate e anche sottoassicurate, complice il drastico calo dei fatturati: come offrire, quindi, a questi capi azienda le più opportune coperture alle migliori condizioni per evitare che guai grossi li possano obbligare a chiudere le loro imprese?

Queste domande (e le relative risposte) sono state il filo rosso che, l’11 giugno scorso, nel Centro congressi della Fondazione Cariplo, a Milano, ha guidato la quinta edizione del convegno organizzato dal Giornale delle Assicurazioni, diretto da Angela Maria Scullica, dal titolo: Imprese e crisi: la risposta del comparto assicurativo tra solidità patrimoniale e gestione del rischio. Il direttore del mensile ha disegnato un quadro dell’attuale situazione economica e finanziaria. «La crisi delle aziende ha travolto non solo le banche, ma anche le assicurazioni» ha sottolineato Scullica. «Queste ultime, infatti, sono state colpite sia dalla svalutazione delle loro partecipazioni, sia dal venir meno anche di molti clienti, costretti a chiudere o a ridurre la loro attività. Ne è risultato intaccato il patrimonio sia tangibile (economico), sia intangibile (parco clienti e avviamento) delle compagnie. In questo quadro, anche gli intermediari assicurativi professionali hanno avuto conseguenze negative: riduzione dei clienti, pressioni sui margini, difficoltà nel pagamento dei premi, con la necessità di anticipare i premi per conto della clientela per non perderla».
Che fare, allora? Non è più tempo di discutere su come uscire dalla crisi economica e finanziaria, ma di ragionare su come affrontarla.

Solidità. Il convegno è andato a tastare quindi il polso del mondo assicurativo per capire se il settore ha dentro di sé la forza per rafforzare la stabilità del tessuto economico del paese. La diagnosi è stata fatta da Aldo Minucci, presidente di Ania. Il quale ha tenuto a ribadire che «la solidità patrimoniale delle compagnie è sempre stato il presupposto che ha permesso alle assicurazioni di coprire i rischi nel settore vita e di proteggere e valorizzare la raccolta di risparmi loro affidati. Anche nei momenti più difficili (politici ed economici), le compagnie non hanno mai dovuto ricorrere ai sussidi pubblici. E hanno saputo gestire da sole le crisi al proprio interno». E ha proseguito: «nel 2012 abbiamo raccolto 504 miliardi, da gestire al meglio per gli assicurati. Eppure questo piccolo particolare, negli incontri con i politici, non viene tenuto nella doverosa considerazione». Ma la politica non ha tenuto conto anche di un altro elemento importante, ha sottolineato Minucci. E cioè che la «crisi è iniziata sì nel 2007, ma ha avuto una svolta un po’ particolare per il nostro paese con lo scoppio del debito pubblico. E i titoli sovrani sono sempre stati una componente privilegiata degli investimenti assicurativi, perché sono considerati sicuri e tranquilli. Proprio il settore assicurativo, negli anni 2011-2012, non solo ha dimostrato di aver saputo raggiungere un forte equilibrio gestionale e finanziario, ma è stato di grande supporto a sostegno del debito pubblico del governo italiano».

Titoli in pancia. Lo dimostrano le cifre: «Dal 2008 al 2012, la dimensione dei titoli sovrani delle imprese di assicurazione è salito, dal 33,4% al 50,6% del totale degli attivi della classe C, quelli in cui le riserve assicurative vengono investite. Gli investimenti in titoli dello stato italiano delle imprese assicurative superano i 200 miliardi, che rappresentano l’11% del debito pubblico italiano. Il legislatore ha introdotto una serie di norme che ha certamente favorito questa scelta. Ma c’è da segnalare anche la forte fiducia del settore assicurativo nel paese e nella sua capacità di superare l’emergenza. L’avere acquistato tutti quei titoli ha rappresentato una grande prova di fiducia». Un altro fatto risulta certo, per il presidente dell’Ania: in questa situazione di incertezza e di volatilità dei mercati finanziari, il comportamento degli assicuratori ha rappresentato un elemento di garanzia e di sicurezza del risparmio degli italiani. Il motivo è semplice, ha spiegato: in un contesto di rendimenti finanziari particolarmente bassi, la capacità gestionale e finanziaria dell’impresa assicurativa ha permesso di assicurare una redditività significativa agli asset affidati dagli assicurati. Anche in questo caso, la parola ai numeri: «Nel 2011-2012, la raccolta di mercato vita italiano e in specifico quella delle polizze a rendimento garantito ha reso in media un 3,8%, un tasso superiore a quello dell’inflazione e a quello con il quale vengono remunerati i Tfr». Questa cifra, secondo il presidente di Ania, smentisce quella «leggenda metropolitana» che vuole gli italiani giudici severi nei confronti del sistema assicurativo. Anzi, c’è un legame profondo che lega i risparmiatori alle loro compagnie di assicurazione. Una riprova? «Nel 2012, e in controtendenza alla crisi economica, la parte vita rappresentava una redditività intorno ai 5 miliardi. A questo aggiungiamo che, dopo anni negativi, è stato raggiunto anche un risultato positivo nel comparto danni di 600 milioni di euro». E ancora: «A fine 2012, il margine di solvibilità delle assicurazioni si attestava a 50,4 miliardi (+11%)». Tutto bene, dunque? No, per Minucci. Sono diminuite le polizze corporate, «il che significa che gli imprenditori tagliano l’assicurazione a loro rischio e pericolo». E nella Rc auto: il 2012 ha registrato un dato positivo, è vero. Ma solo perché, causa la crisi, gli italiani hanno viaggiato di meno, e quindi sono diminuiti gli incidenti. «Ma non si riesce a far capire a cittadini e politici che il costo della Rca è legato al costo dei sinistri che è in crescita. Quindi, solo quando si avrà coraggio di prendere finalmente decisioni coraggiose, soprattutto riguardo ai risarcimenti legati al danno biologico, che ha numeri e valori superiori ai livelli europei, le Rc auto potranno scendere in Italia dal 3% al 5%».
Con la semplice apparizione al dibattito per un breve saluto, Carlo Malvezzi, consigliere regionale lombardo e vice presidente della commissione attività produttive al Pirellone, ha promesso di servirsi delle idee esposte nel convegno nel momento in cui si metterà mano alla piattaforma di marketing territoriale per attrarre nuovi investimenti in Lombardia.

Percorsi possibili. Sul rapporto paese-assicurazioni-imprese si è soffermato Fabio Cerchiai, presidente di Febaf, la federazione delle banche, delle assicurazioni e della finanza cui aderiscono Abi, Ania e Assogestioni. Che ha ricordato: in Italia ci sono 4 milioni di imprese, 3 milioni sono società di persone, solo uno è formato da società di capitali, ma di queste il 99,9% dispone di un fatturato inferiore a 250 milioni. «Quindi imprese piccole e micro, che dipendono da aziende più grandi, ma hanno una loro autonomia, capacità progettuale e volontà di stare sul mercato». Da una parte, insomma, c’è il “piccolo è bello”, un mondo formato da Pmi sottocapitalizzate e bancocentriche («per un finanziamento, l’80% si rivolge agli istituti di credito contro un 20% negli Usa»), dall’altra un paese con un’elevata spesa corrente, inefficiente e improduttiva. Per fortuna, avverte Cerchiai, «abbiamo due mondi solidi: quello bancario e quello assicurativo. Ma di sola solidità si rischia di perire. Occorre la redditività». Se questo è il quadro generale, come possono banche e assicurazioni creare canali per investire nelle Pmi? Cerchiai ha due idee. La prima: «Pensiamo ai debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Questi debiti bisogna renderli “bancabili”, con la garanzia dello stato, utilizzando la Cassa depositi e prestiti, i fondi di garanzia, di investimento o di debito. Lo fanno già altri in Europa, lo fanno i francesi. Copiamoli». L’altra idea è riassumibile nello slogan “più ti assicuri, più hai accesso al credito”. È proprio così? Sì, secondo il presidente di Febaf. Che spiega: «L’Ania ha condotto uno studio nel quale viene descritta una decisa correlazione tra spesa assicurativa e facilità di accesso al credito. Ed è dimostrato che le Pmi più assicurate hanno avuto un accesso al credito più facile e meno costoso».
Ma si può fare ancora di più: «Tocca alle assicurazioni promuovere le coperture assicurative adeguate. Sta al mondo bancario tenere conto, nella valutazione del merito creditizio, di quanto le imprese siano protette contro i rischi. Tocca a Banca d’Italia introdurre tra le 1.400 regole sottostanti alla valutazione del merito creditizio anche la componente assicurativa».

L’accesso al credito. «È vero» ammette Marco Oriolo, vicepresidente dei giovani imprenditori di Confindustria.
«Solo un’impresa su cinque è coperta contro i danni indiretti. E ci manca la cultura del risk management. Anche perché siamo occupati a combattere in un paese dove, negli ultimi cinque anni, circa 70 mila imprese hanno chiuso i battenti, la disoccupazione ha raggiunto il 12%, siamo in piena recessione con una decrescita prevista anche nel 2014, il tax rate è salito al 68% (mentre in Germania è al 48%), il Pil è sceso di oltre l’8%, la pubblica amministrazione non paga i suoi debiti e vige il credit crunch in banca». Ma, sottolinea Oriolo, «non tutte le colpe sono nostre. Infatti, abbiamo la percezione che i costi delle polizze siano elevati. E che alcuni interrogativi non abbiano avuto ancora una risposta». Del tipo? «Che cosa può fare un assicuratore per le start up? E per supportare le aziende nell’internazionalizzazione?». Comunque, se è vero che l’Italia va male, è anche perché l’Europa non sta troppo bene. E la colpa dei nostri malanni risiede su un debito pubblico che è andato aumentando negli ultimi 15 anni. Le spese per la sanità, poi, sono andate fuori controllo in alcune regioni. «E non solo la sanità», ha aggiunto Paolo Panarelli, direttore generale di Consap, «ma anche la previdenza e i rischi catastrofali. Questi sono i campi tipici delle assicurazioni che, quindi, possono avere ampi spazi di crescita».

Infine, anche Panarelli ha battuto il chiodo sull’accesso al credito: «Le aziende meglio assicurate sono anche quelle più ben viste dalle banche perché attenuano il rischio per gli istituti». Insomma, per incentivare gli imprenditori a firmare le polizze, questi hanno bisogno di una immediata convenienza. Anche perché l’Italia è un paese che non ama troppo le polizze. «Ma questi ultimi cinque anni sono stati terribili», ha avvertito Dario Focarelli, direttore generale di Ania, che ha aperto la tavola rotonda dal titolo: Assicurarsi per proteggere aziende e dipendenti: un modello che funziona?, moderata da Scullica. I dati parlano addirittura di un -1% delle coperture contro l’incendio. «Basse anche quelle sulla responsabilità civile per danni ambientali e sui rischi indiretti».
E per avere più credito in banca e a meno costi, «non è sufficiente dire di essere in qualche modo assicurati, ma bisogna dimostrare soprattutto la qualità dell’assicurazione. Perché l’obiettivo è quello di trovare un adeguato nesso di causalità tra l’essere assicurato e diventare un miglior cliente della banca rispetto al non assicurato, a parità di condizioni. Ci guadagneremmo tutti. Le polizze del cliente, in qualche modo, dovrebbero entrare nel database delle banche e avere una loro valutazione, come succede oggi per la centrale rischi», che fornisce al sistema finanziario informazioni sulla posizione creditizia dei clienti che ricorrono al credito.
Ma perché questo è un paese nel quale gli imprenditori si stanno prendendo troppi rischi? Circa il 14%, infatti, non sottoscrive neanche la polizza incendio (fonte: La domanda assicurativa delle Pmi, Guiso), sono sottovalutati i rischi potenzialmente molto gravi come i danni ambientali (solo il 10% ha sottoscritto una polizza contro l’inquinamento), l’interruzione dell’attività produttiva (meno del 20% è assicurato), i rischi catastrofali e quelli reputazionali

Costo o investimento? Una risposta l’ha offerta Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza. «In Italia manca l’educazione a proteggersi dai pericoli, soprattutto da quelli gravi. Troppi azzardi. E anche per questo che non vengono percepiti i rischi riguardo alla salute e alla previdenza. E come è obbligatoria la Rc auto, si può discutere e trovare le formule per rendere indispensabili e necessarie, per esempio, le coperture assicurative per invalidità e long term care».
Tutto questo potrà succedere, soprattutto per quanto riguarda gli imprenditori, quando l’assicurazione non verrà più considerata un costo, ma un investimento. «Tutte le polizze fatte male sono un costo», ha avvertito Paolo Rubini, presidente di Anra, l’associazione nazionale di risk manager e responsabili di assicurazioni aziendali. Il suo consiglio? «Firmare polizze che coprano gli eventi più gravi. Se questo non succede, credo che la colpa sia del mercato assicurativo che presenta poche coperture sui danni indiretti».

Il nuovo ruolo degli intermediari. Per saperne di più, sentiamo i broker assicurativi, che gestiscono il 70% circa dei rischi industriali del paese. «Ci stiamo trasformando sempre di più in consulenti, e l’obiettivo è quello di diventare dei partner delle Pmi», ha affermato, da parte sua, Francesco Paparella, presidente di Aiba. «Servono sempre più broker professionali che devono consigliare l’imprenditore da quali pericoli proteggersi per evitare di dover chiudere l’azienda». E se le Pmi sono oggi sottoassicurate, «magari la colpa è di noi assicuratori che non siamo riusciti a trasmettere i bisogni assicurativi». «La prima difficoltà nell’incontrare un imprenditore per parlare di polizze è quella di superare la sua diffidenza», ha aggiunto Giovanni Caruso, consigliere di amministrazione di Wholesale insurance broker. «Poi, complice anche la crisi, è lui che vuole sapere a quali rischi va incontro e come poter rimediare». Le assicurazioni propongono le solite e tradizionali polizze danni; è vero? «Le coperture sui danni indiretti prima erano poco interessanti per gli assicurati; oggi, invece, c’è un maggior interesse da parte del mercato e, quindi, possono esserci nuove opportunità per le compagnie». Come i giovani industriali, anche gli agenti assicurativi, ha chiarito Claudio Demozzi, presidente di Sna, vogliono «rompere le catene» che li limitano a essere semplici distributori di prodotti di massa. «In questi anni è pesata l’abitudine. Il mercato assicurativo danni non dà segni di vita, anche perché i prodotti sono quelli che sono. E le polizze sono scritte come 100 anni fa. Bisogna, invece, trovare nuovi prodotti, nuove sinergie, nuovi target». E forse un’immagine più positiva? «La sensazione della gente» avverte, infatti, Pietro Pipitone, direttore generale di Roland, che offre prodotti di tutela legale, «è che l’assicuratore sia uno che cerca di prenderti i soldi e poi ti tira via l’ombrello quando piove». Un’esagerazione? «Il vero problema è la trasparenza. Bisogna saper dire all’imprenditore che quando apre il capannone, gli può capitare che i dipendenti sbaglino e di ritrovarsi coinvolti in un procedimento penale. E le indagini penali possono paralizzare un’azienda e persino rovinarla». Come evitare questo incubo? In due mosse. La prima: «Fare consulenza per individuare i rischi personali dell’imprenditore, per analizzare le aree di rischio in azienda e per elaborare misure adeguate ad evitare i pericoli». La seconda: «Utilizzare prodotti assicurativi che coprano davvero questi rischi». Perché le polizze per la tutela legale sono così poco diffuse in Italia? «Le grandi compagnie generaliste non le propongono perché considerano modesti gli utili conseguiti: per loro, insomma, non vale la pena di agitarsi per guadagnare un milione in più».

Rischio paese. Non solo la tutela legale. Poco considerati sono anche i rischi ai quali si va incontro facendo internazionalizzazione, nonostante siano molte le imprese che operano nei paesi emergenti. «Anche se la nuova produzione sui mercati esteri è aumentata del 14%, su 200 mila aziende che esportano, solo 5 mila sono assicurate» ha spiegato Antonella Vona, che di Coface è la responsabile marketing e comunicazione Mediterranean & Africa region. Eppure qualcosa si sta muovendo, assicura Vona: «Sono sempre di più gli imprenditori che chiedono la valutazione dei rischi sui vari paesi e vogliono una maggior selezione della clientela per evitare i mancati pagamenti». Ed è proprio sulla conquista dei mercati esteri che è intervenuto Marco Oriolo, vicepresidente dei giovani imprenditori di Confindustria, a chiudere la tavola rotonda. «Non ci sono alternative» ha precisato. «Per crescere bisogna prendere la valigia e andare all’estero. Mi auguro, quindi, che le assicurazioni siano preparate e competenti sui rischi che andiamo a correre. Inoltre, gli imprenditori preferiscono dialogare con un unico interlocutore, pur facendo affari su tre/quattro mercati esteri».

Ma non è finita: sul rapporto banca e polizze, Oriolo lancia un’idea alle compagnie: «Perché non certificate con un bollino che un’azienda è adeguatamente assicurata, in modo che possa trarne un beneficio competitivo in banca e sui mercati dove essere bene assicurati può diventare un vantaggio?». Bella domanda.

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