La “dottrina Draghi” sulle imprese in crisi potrebbe iniziare a essere messa alla prova concreta nel corso della programmazione del secondo Decreto Sostegno a cui l’esecutivo guidato dall’ex governatore della Bce lavora per rafforzare lo stimolo all’economia italiana avviato con il primo intervento economico della sua gestione.
Rispetto ai precedenti ristori varati dal governo Conte II, il governo Draghi ha voluto introdurre parecchie novità per una prima misura inserita nella risposta a una nuova fase di acuta tensione legata alla pandemia: dal calcolo dei contributi a fondo perduto a partire dal calo di fatturato medio mensile tra il 2020 e il 2019 fino alla cancellazione dei codici Ateco.
“Il ristoro a fondo perduto non si calcola più sulla base di un raffronto secco tra aprile 2019 e aprile 2020, bensì sulla base della perdita di fatturato media mensile tra il 2019 e il 2020”, ha fatto notare in una relazione il centro studi Esc Italia. “Così come disposto nei precedenti decreti, il contributo spetta a condizione che l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 sia inferiore almeno del 30 per cento rispetto all’ammontare medio mensile del fatturato 2019”
Dai fioristi agli odontoiatri, dagli operatori delle mense scolastiche ai titolari di negozi di scarpe, dagli agenti di commercio a svariati liberi professionisti, i ristori del governo giallorosso, vincolando l’emissione di un sussidio al possesso di un dato codice, escludevano diverse categorie colpite dalla chiusura. E inoltre, complice la mobilitazione di Forza Italia, il governo Draghi ha potuto inserire le imprese agricole tra le beneficiarie dei ristori.
Ora Draghi ha deciso di cambiare approccio e, anche se sul fronte dell’apporto medio di ogni ristoro diretto sussistono ancora delle criticità, nel Decreto Sostegno ha improntato un primo cambio di passo in attesa della reale svolta attesa per il secondo tempo del decreto stesso.
Il Ministro degli Affari Regionali Mariastella Gelmini e il Ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti hanno interpretato il pensiero del premier su imprese e aiuti proponendo, nelle riunioni preparatorie per il nuovo decreto, una proporzionalità diretta tra le chiusure delle attività colpite dalle misure restrittive e l’emissione dei sussidi ai titolari degli esercizi medesimi. In altre parole, la volontà è di aggiungere un nuovo criterio dopo la perdita di fatturato e alla rimozione dei codici Ateco, ovvero una corsia preferenziale per quelle attività maggiormente colpite tra la zona arancione e quella rossa. Così da selezionare la platea ma garantire agli esercizi coinvolti un sostegno strategico e più performante. “Ad esempio”, nota Linkiesta, “in zona arancione saranno privilegiati bar, ristoranti, palestre, piscine, tutte attività che avranno le serrande abbassate, a differenza dei negozi, che invece resteranno aperti se il colore resterà quello”. L’orientamento del governo, in vista del nuovo decreto, è di confermare le chiusure e ritardare il ritorno della zona gialla fino a inizio maggio, e di conseguenza servirà uno sforzo ulteriore per quelle categorie che, su base probabilmente più ristretta rispetto al recente passato, dovranno tirare la cinghia ancora per alcune settimane.
Da dove nasce questo cambio di passo? Da quattro questioni tecniche e dalla necessità di leggere in prospettiva l’azione di politica economica. Sanando anche alcune questioni fondamentali lasciate in eredità dall’era Conte.
In primo luogo, nella gestione giallorossa i ristori si erano inseriti come misura una tantum in un complesso di politiche economiche emergenziali che avevano finito per impattare strutturalmente sull’attività economica dello Stato. La somma tra ristori sistemici, garanzie alla liquidità e cassa integrazione in deroga ha costruito una rete protettiva che ha impedito una slavina sistemica ma non ha ridotto l’ingessamento dell’economia italiana. E il Conte-bis non ha voluto sciogliere il nodo del cambio di approccio, lasciando la patata bollente a Draghi. Un approccio analogo a quello seguito sul fronte delle politiche più espansive, come ricordato su queste colonne: “degli oltre 9 miliardi di euro stimati come utilizzo per il 2021, ne sono stati utilizzati 1,2 miliardi, solo il 13%”.
In secondo luogo, il governo neo-costituito sta iniziando a progettare una differenziazione delle misure tra piccole imprese e società di taglia medio-grande in vista della scadenza del blocco dei licenziamenti, della fine delle garanzie alla liquidità e delle prossime riaperture. Una serie di sostegni più mirati può sbloccare risorse non solo finanziarie ma anche strategico-operative per pensare a come valorizzare il rilancio del comparto più rilevante della nostra economia.
In terzo luogo, bisogna preparare l’azione economica da possibili cambiamenti negli orientamenti comunitari. Come ha spiegato l’Huffington Post, infatti, “dopo un anno di aiuti senza distinzioni, con la massima libertà lasciata agli Stati membri sull’utilizzazione dello strumento Sure di sostegno alla disoccupazione” l’Unione Europea ha annunciato le nuove linee guida sugli aiuti di Stato “che ampliano il loro sguardo alla prima metà del 2022” e prevedono la possibilità per gli Stati di continuare a sostenere i settori in crisi a patto di seguire una maggiore discrezionalità. Queste norme mirano a garantire “anche le banche dai rischi di insolvenza (non performing loans, i crediti inesigibili in aumento con la crisi)” che le recenti direttive hanno notevolmente alimentato.
In quarto luogo, è in arrivo il Recovery Fund. In vista del quale il tessuto economico italiano dovrà riacquisire vitalità e la politica economica farsi stratega, non più tamponatrice delle falle dell’economia. Il Recovery Fund opererà una grande diversione nelle risorse umane e materiali dei ministeri economici e imporrà di concentrare gli sforzi. I bonus dell’era Conte non hanno funzionato anche, e forse soprattutto, perché l’esecutivo giallorosso si è impantanato su una somma di misure contraddittorie, di breve respiro ma al tempo stesso estremamente difficili da porre in essere. Creando un comprensibile ingolfamento a livello burocratico amministrativo che è stato solo in parte sanato dal super-lavoro compiuto da società come Sace e dagli istituti bancari.
Trasversale a tutto ciò c’è il fondamento della “dottrina Draghi”, il principio della “distruzione creatrice” caro al teorico del management Joseph Schumpeter. Poco prima della sua chiamata al governo, contribuendo con i membri del gruppo internazionale di economisti G30 al paper Reviving and Restructuring the Corporate Sector post-Covid. Designing Public Policy Intervention, dedicato al sostegno alle imprese nell’era del Covid-19 e al futuro degli aiuti di Stato, Draghi ha sostenuto l’idea secondo cui fare sì che il “polmone” artificiale dell’aiuto pubblico continui l’esistenza di settori condannati all’espulsione dal mercato e a imprese decotte a prescindere dal Covid-19 rappresenterebbe una dispersione di risorse che gli Stati non si possono permettere. E dunque gli aiuti vanno dati a quei settori maggiormente suscettibili di subire perdite dirette dalle chiusure (da qui la proposta avanzata da Gelmini e Giorgetti interpretando la linea del premier) e a quei comparti in grado di attivare i maggiori moltiplicatori occupazionali e di investimento.
In questo contesto, il premier intende porre in essere una Rivoluzione copernicana rispetto all’era Conte: provare a fare del prossimo decreto Sostegni non tanto una delle tante misure di tamponamento delle crisi ma il banco di prova della politica economica relativa a imprese, lavoro e sostegno pubblico all’economia che contraddistinguerà il resto del suo operato.
Una svolta che il legame diretto e insindacabile tra evoluzione epidemiologica su base geografica e temporale e garanzia di aiuti a categorie ben precise vuole rendere strutturale. Sperando che venga presto il momento della spesa strategica per gli investimenti di lungo periodo. Impossibili da concepire senza la presenza di un tessuto produttivo sano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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