Stati Uniti d’Europa: una strada praticabile?

I contrasti fra i paesi forti e quelli deboli, nati con la crisi del debito, sembrano allontanare i sogni di aggregazione continentale. Ma le grandi riforme dell’Ue, ritenute impossibili nei periodi di tranquillità economica, sono sempre state compiute in momenti di difficoltà...

Stati Uniti d’Europa: una strada praticabile?

Ha ancora un senso parlare di Stati Uniti di Europa? E, se sì, come superare le criticità e gli ostacoli di cui è stato finora disseminato il percorso verso questo obiettivo che tante speranze aveva acceso nei padri costituenti dell’Europa a metà del secolo scorso? E come favorire il decollo di questo progetto? Sono solo alcuni degli interrogativi che sono emersi durante un incontro organizzato da Nifa (New international finance association) e BancaFinanza a Roma, presso i locali di Swiss Re. Al dibattito, coordinato da Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza, Giornale delle Assicurazioni ed Espansione e da Filippo Cucuccio, direttore generale dell’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del credito – Anspc e giornalista hanno preso parte Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Snam e visiting scholar presso lo Iai; Fabio Cerchiai, presidente della Federazione banca, assicurazioni e finanza (Febaf); Dario Focarelli, direttore generale dell’Ania; Ettore Greco, direttore generale dell’Istituto affari internazionali; Rainer Masera, professore di politica economica e preside della facoltà di Economia dell’università “Guglielmo Marconi” di Roma; Ercole Pellicanò, presidente di Anspc e docente presso la facoltà di Economia dell’università Lumsa di Roma; Mario Sarcinelli, vicepresidente dell’Abi.

Domanda. All’interno dell’Ue, il clima non è dei migliori, e le contrapposizioni nord-sud hanno raggiunto un livello mai sperimentato prima. In un simile contesto è ancora possibile parlare di Europa unita?

Greco. Il tema dell’unione politica nasce da una profonda crisi di legittimità. Si è andato, infatti, visibilmente allargando il divario tra i crescenti poteri e competenze dell’istituzione-Unione e i meccanismi, sempre più inadeguati, per la partecipazione politica, il controllo democratico e la trasparenza. È un problema che esisteva da tempo, ma che la crisi ha fortemente accentuato. Per rispondere alla crisi sono stati infatti approntati nuovi meccanismi di intervento che potenziano la capacità di sorveglianza e di intervento delle istituzioni europee. E che implicano considerevoli trasferimenti di sovranità dai paesi membri a Bruxelles. Tutto questo ha acuito (e di molto) il problema della legittimità democratica. In particolare, sono stati creati meccanismi pervasivi di controllo sulle politiche di bilancio, tradizionalmente una delle principali prerogative dei parlamenti nazionali. Grazie a ciò, le istituzioni dell’Unione possono influire in maniera determinante su decisioni dei governi e dei parlamenti che hanno un forte impatto sulle condizioni economico-sociali dei cittadini. Dopo tanti anni in cui discutere di federalismo europeo era quasi un tabù, ora è diventato di moda parlarne. Politici, analisti e studiosi della materia si dichiarano a favore degli “Stati Uniti d’Europa”, ma lasciando nel vago contenuti e strategie. Il problema è invece capire cosa si può fare nella situazione attuale per far progredire la dimensione politica dell’Unione. Anche in vista delle prossime elezioni del parlamento europeo.

Bini Smaghi. L’Europa si trova in mezzo a un guado. Da un lato, guardando indietro, sono innegabili i progressi compiuti negli ultimi tre anni, nel completamento del quadro istituzionale che riguarda la moneta unica. È stato creato il Fondo salvastati, si è avviata l’unione bancaria, sono stati messi in atto processi rafforzati di monitoraggio delle finanze pubbliche e degli squilibri interni all’Ue. D’altro lato, rimane ancora molto da fare per rendere l’area euro sufficientemente solida da poter far fronte a nuove crisi. L’unione bancaria, in particolare, è in via di realizzazione, ma c’è un pieno consenso solo sul trasferimento delle competenze di vigilanza alla Bce. Sulla creazione di un sistema di risoluzione unico delle crisi bancarie, la discussione è ancora aperta. Il problema è che i passi avanti nell’integrazione europea vengono compiuti solo sotto pressione dei mercati finanziari, in momenti di crisi. Solo con la spinta esterna le autorità nazionali riconoscono che il sistema decentrato non funziona e che bisogna procedere sulla via di una maggiore condivisione della sovranità. Questo è il dilemma in cui l’Europa vive da molti anni. Il principio di sussidiarietà stabilisce che solo le competenze non adeguatamente svolte a livello nazionale devono essere accentrate. Tuttavia, solo quando c’è una crisi ci si accorge che le competenze dei vari paesi non sono esercitate bene. Altrimenti, le autorità nazionali cercano in tutti i modi di mantenere le loro prerogative. Anche quando appare evidente che un sistema decentrato non può funzionare.

Masera. I padri dell’Europa non avevano previsto di iniziare dall’unione monetaria, ma di costruire prima quella politica. Ma qualcuno ha invertito i fattori, creando un deficit di politica intesa nel senso più nobile del termine. Con quali risultati? Manca uno stretto rapporto tra popolo sovrano e parlamento europeo; manca una discussione allargata su giustizia e magistratura; manca pure il governo. Nessuno dei tre poteri nati con Montesquieu e la Rivoluzione francese può dirsi realmente completato. Un paragone con gli Usa? Mi limito a ricordare che gli Stati Uniti d’America sono diventati tali quando si sono separati dall’Inghilterra, sulla base del principio no taxation without representation.

Sarcinelli. Per stabilizzarsi, l’Eurozona ha bisogno di prevedere trasferimenti di tipo automatico, come risultato di una capacità fiscale centralizzata. Questo aspetto è stato evocato dal “Rapporto dei quattro presidenti” e più di recente da François Hollande. Per il funzionamento dell’unione bancaria europea è necessario procedere alla costituzione del Single resolution mechanism (Srm). Questo meccanismo prevede che tutti i paesi dell’Eurozona contribuiscano alla risoluzione dei problemi bancari di uno di essi. Ciò comporta trasferimenti, appunto. E questo, secondo il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, richiede una riforma dei trattati che, in senso stretto, non prevedono questa possibilità. Inoltre, un’optimal currency area, per funzionare bene, ha bisogno di accompagnare la politica monetaria unica con una capacità fiscale centralizzata che, per costruzione, incorpora una funzione di trasferimento. Ciò equivale a dire che c’è bisogno di una qualche forma di unione politica, che potrebbe svilupparsi lungo le linee indicate dall’attuale ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino. Ma allora l’interrogativo che pongo prima di tutto a me stesso è: vale la pena di impegnarsi a fondo nella modifica dei trattati per inserirci soltanto una funzione di trasferimento, limitatamente allo Srm?

Focarelli. Attualmente l’European systemic risk board ha la responsabilità legale della sorveglianza, e la prevenzione e mitigazione dei rischi sistemici per il sistema finanziario dell’Ue. Ma l’Esrb non dispone di propri strumenti macroprudenziali. Questa responsabilità è affidata alle autorità nazionali, sia pure con vincoli comunitari. Dal punto di vista generale, due buone ragioni motivavano questo modello di governance: primo, come testimonia la storia degli ultimi dieci anni, i cicli finanziari e macroeconomici sono ancora molto diversi tra i paesi dell’Ue, nonostante l’integrazione finanziaria; inoltre, le autorità nazionali conservano il controllo esclusivo della vigilanza finanziaria e della risoluzione delle crisi, sulla base della responsabilità esclusiva delle finanze pubbliche nazionali nel sopportarne i costi. Lo scorso dicembre, il Consiglio europeo ha approvato un regolamento che istituisce un meccanismo unico di controllo (il single supervisory mechanism), che sarà responsabile per la vigilanza prudenziale micro e macro di tutte le banche nei paesi che vi partecipano. Da quello che sappiamo a oggi, tutti i paesi dell’Ue - con l’eccezione di Gran Bretagna e Svezia - dovrebbero aderire all’Ssm. Che sarà composto dalla Banca centrale europea e dalle autorità nazionali competenti (Nca), con la Bce in qualità di autorità di vigilanza europea «responsabile del funzionamento efficace e coerente» del sistema. Naturalmente la creazione dell’Ssm pone due problemi: qual è la funzione di Eba per la vigilanza microprudenziale delle banche? E quella di Esrb per la vigilanza macroprudenziale?

Cerchiai. Dovremo abituarci a convivere con questa malattia per non poco tempo: quindi mi unisco alla necessaria gradualità, per essere pragmatici. Perché, ancor prima di un’unione politica, la mancanza che sentiamo - e forse l’obiettivo che potremo raggiungere per primo - è una politica economica comune che nella mia riflessione, dovrebbe almeno individuare un gioco di squadra; immaginare, cioè, che quello europeo sia davvero un mercato unico, cosa che vista da un operatore economico è di dubbia realtà. Voglio anche sottolineare che, come è stato già detto, gli interventi avvengono quasi sempre in un’ottica più o meno di emergenza. In altri termini, si cura la dimensione della febbre, ma soltanto per questa specifica manifestazione. Altro aspetto è il debito pubblico. Credo che il vero problema sia come e perché sia stato creato, a che serve e perché continua a rigenerarsi anziché ridursi. Sono molto più gravi, a mio avviso, l’inefficienza della spesa piuttosto che la dimensione di per sé del debito. Quindi, il vero punto è avere una visione comune di politica economica che non richiede un’unione politica da Stati Uniti d’Europa. Non solo una visione sulla “coda”, e cioè sull’unione monetaria o fiscale. In definitiva, ben prima dell’unione politica, dovrebbe esserci una visione comune dei problemi e delle opportunità di tipo economico che vengono dai paesi europei. Che siano pure stati, e stati indipendenti, ma capaci almeno di identificazioni di linee da proporre all’Europa nella sovranità nazionale di ciascuno. Oppure linee che, rifiutate o accettate, lo siano con delle motivazioni precise e ragionate. Il fatto che si debba legiferare all’unanimità è la classica “prova del nove” di come si sia pensato a una formula che induce a non fare niente, perché l’unanimità è dato difficile da raggiungere, quasi impossibile; un meccanismo in cui si deve raggiungere l’unanimità è quasi una dimostrazione del fatto di non volere consapevolmente combinare molto, di non voler decidere.

Pellicanò. La costruzione europea soffre tre principali deficit: di governance istituzionale, di rapporti e di coesione tra governi, di carenza nell’armonizzazione tra le varie economie. A questi, c’è da sommare quello delle demografie e delle culture nazionali rispetto alle problematiche generali. Questa disarmonia si è aggravata con il perseguimento della strada del rigore che, con alti e bassi, proseguirà fino alle elezioni tedesche di settembre. Questa situazione, particolarmente complessa e articolata, rischia di mettere in crisi l’intera costruzione europea, anche per le pericolose avvisaglie alimentate dal possibile referendum inglese per l’uscita dall’unione. Inoltre, come aggravante, sembra che gli ingranaggi del meccanismo economico si siano inceppati. Per cui continua a essere difficile il trasferimento all’economia reale di ciò che sarebbe necessario dal punto di vista finanziario. Premesso tutto ciò, mi limiterò a parlare dello stato di sofferenza delle Pmi, i cui indici restano sotto la soglia di espansione dei 50 punti. Questo parametro, che raccoglie sia il manifatturiero, sia i servizi, è attestato intorno a 46,9 punti: per la Spagna a 44 e per la Francia a 44,3. L’Italia è invece salita a 46,6 punti. Ciò spiega l’impennata della disoccupazione in Europa, da cui deriva una drammatica, pericolosa lacerazione sociale. Dal 2008, i disoccupati Ue sono cresciuti di 9 milioni, facendo lievitare il relativo tasso al 12%, con 26 milioni di persone coinvolte. Il dato si incrementa drammaticamente per i giovani dai 15 ai 24 anni: circa 5,7 milioni, con l’aggravio per i Neet (not in education, employment or training, giovani disoccupati scoraggiati e al di fuori di ogni ciclo di istruzione e formazione). Da un simile quadro scaturisce, a livello europeo, la necessità di attuare riforme incisive la cui realizzazione, nel momento attuale, diventa però molto difficile. Nella Ue, in ogni caso, dovrebbero essere privilegiati alcuni progetti tra quelli inclusi nei due grandi programmi poliennali (Connetting Europe facility ed Europa 2020), rilanciando così la ripresa e l’occupazione, valorizzando l’industria, le imprese e potenziando la Bei. L’Italia, con un tessuto produttivo rappresentato per lo più da micro, piccole e medie aziende (99,9% delle imprese), può essere un laboratorio per l’Europa, pur con i necessari distinguo, dal momento che in quel contesto possono essere attuate e verificate componenti della politica economica, dal lato fiscale, monetario e sociale. Il distinguo si riferisce al fatto che il 95% delle unità produttive è dato dai Poe (piccoli operatori economici), con un fatturato inferiore ai 2 milioni di euro, con meno di dieci unità lavorative, e che danno occupazione a circa il 46,6% della forza-lavoro. Si tratta di micro-entità che presentano caratteristiche ed esigenze del tutto peculiari. Comunque, le micro e le Pmi rappresentano la spina dorsale anche dell’economia europea, essendo pari al 99,8% delle imprese non finanziarie (da uno a 250 dipendenti). La chiave di volta per superare questa fase congiunturale sta, in definitiva, nel restituire ossigeno al settore delle Pmi, favorendo la crescita dell’occupazione, della domanda, e, quindi, una svolta positiva del ciclo economico. Da ciò trarranno vantaggio e rivitalizzazione anche i Poe, con conseguenti positive ricadute occupazionali.

D. I problemi non sono solo economici, ma anche politici. Quali sono i nodi più spinosi da risolvere?

Greco. Parto dal problema del tasso di democraticità, decisamente basso, anzi direi del tutto insoddisfacente, che si registra oggi all’interno dell’Ue. Con il Trattato di Lisbona si sono fatti alcuni passi in avanti per tentare di colmare il deficit democratico. Sono stati rafforzati alcuni meccanismi, in particolare conferendo un maggiore potere decisionale al parlamento europeo, mentre a quelli nazionali sono state riconosciute nuove possibilità di intervento nel processo legislativo; si è introdotto anche qualche strumento di democrazia diretta. Spesso, due questioni si confondono nel trattare queste tematiche: da un lato, come ampliare e rendere più efficienti gli strumenti di partecipazione democratica, permettendo un maggior coinvolgimento dei cittadini; dall’altro come rendere l’assetto istituzionale dell’Ue più conforme alle crescenti esigenze sia di governabilità del sistema, sia di apertura alle istanze democratiche. Le due cose sono collegate, ma l’unione politica non si promuove soltanto con il potenziamento degli strumenti della democrazia, ma anche creando un diverso equilibrio fra le istituzioni. Ora, ci sono diverse opzioni politiche possibili per affrontare la questione del deficit democratico dal punto di vista istituzionale. Una è il rafforzamento dei parlamenti nazionali. Ma ciò rischia di complicare ulteriormente il processo decisionale e soprattutto quello legislativo, frenando l’integrazione. La mia opinione è che non sia questa la via maestra per la risoluzione del problema. In generale, non si può pensare di dare una risposta convincente al problema del deficit democratico europeo attraverso strumenti o iniziative che rimangano circoscritte a livello nazionale. Quella che si deve costruire è infatti una democrazia su scala europea, che si sviluppi in uno spazio pubblico comune a tutti i paesi membri. In quest’ottica si potrebbe cercare di far leva sull’Iniziativa europea dei cittadini, il nuovo meccanismo di democrazia diretta istituito dal trattato di Lisbona. Ma è uno strumento che può avere un impatto solo marginale, e che si presta facilmente a strumentalizzazioni politiche. Cosa fare allora? Sulla scia di Lisbona, la via maestra è quella di rafforzare la democrazia rappresentativa a livello europeo. Quindi bisogna puntare prima di tutto su un ulteriore rafforzamento del parlamento europeo (che dovrebbe avere, fra l’altro, anche poteri costituenti) e su una revisione dell’assetto istituzionale (che consolidi e renda più organico il legame fiduciario tra parlamento e commissione europea). A che punto siamo? Ci sono state varie iniziative e posizioni, tra cui il documento dei quattro presidenti, che fa un riferimento esplicito all’unione politica, ma senza offrire un orizzonte temporale definito. È importante che i vertici istituzionale dell’Ue abbiano riconosciuto che, oltre all’unione bancaria, a quella di bilancio e a quella economica, si deve perseguire anche l’obiettivo dell’unione politica per venire incontro all’esigenza sempre più avvertita di un controllo democratico sui processi di integrazione. Nel documento dei quattro presidenti si prende atto che una «genuina» unione politico-monetaria si può costruire solo sulla base di una più compiuta unione politica, che garantisca almeno un controllo incisivo del parlamento europeo sui nuovi meccanismi di cooperazione e integrazione economica che si vanno costituendo. Proposte di riforma più avanzate sono state formulate da 11 ministri degli Esteri, compreso quello italiano: proposte che hanno una più chiara e marcata ispirazione federalista, mirano cioè a un compiuto sistema di governo europeo. Il modello federalista è d’altronde, l’unico coerente per una riforma all’altezza dello stadio attuale dell’integrazione, che possa garantire efficienza istituzionale e più democraticità.

D. Quale scenario possiamo, dunque, delineare per cercare di evitare gli errori del passato e proiettarci verso la realizzazione di quello che finora è stato considerato un sogno?

Cerchiai. Riparto da quello che affermavo a conclusione del mio primo intervento: prima dell’unione politica dovrebbe esserci una visione comune dei problemi e delle opportunità di tipo economico che vengono dai paesi europei. E allora la domanda da farsi è: quale potrebbe essere il percorso? Formulare - o iniziare a farlo - una politica economica comune nell’area euro, che passa attraverso una serie di aspetti non soltanto relativi alla parte fiscale o monetaria, ma anche all’efficienza della burocrazia, al modo in cui si fanno le liberalizzazioni, al sistema di welfare, e via dicendo. Qui apro una finestra sul credito bancario. Non perderei molto tempo a discutere se c’è un razionamento: c’è un livello di credito che è molto elevato nei confronti di un sistema economico-industriale caratterizzato da Pmi, in cui le regole nazionali (e ancora prima quelle europee) rendono sempre più difficile identificare il merito creditizio. E quindi la possibilità espansiva del credito. Abbiamo un sistema bancario solido: per questo dobbiamo avere un approccio un po’ più sistematico e aperto a guardare tutto, anche i punti forti: la credibilità italiana, piuttosto che la flessibilità della piccola industria, deve essere sostenuta da una possibilità che al mondo economico delle imprese arrivi non solo dal sistema bancario, ma da un insieme di strumenti di nuova disponibilità. Occorre una serie di iniziative per convogliare il risparmio, nella trasparenza delle regole, nella finanza, che soccorra la carenza di equity, situazione specifica delle Pmi italiane. Nel mio scenario, solo così si può arrivare a elaborare un piano industriale economico europeo. Perché prima di fare l’unione politica bisogna avere la disponibilità a mettere a fattor comune problemi e opportunità. In assenza, gli interventi di emergenza, forse più che sufficienti in situazioni di crisi congiunturali, non curano il malanno in presenza di una crisi strutturale. Sono come un’aspirina presa per una broncopolmonite.

Pellicanò. La chiave di volta sta nel restituire ossigeno alle Pmi, favorendo la crescita dell’occupazione, della domanda, e, quindi, invertendo la tendenza regressiva del ciclo economico. Nell’unione economica esiste una forte liquidità in possesso delle banche, per 800 miliardi di euro, cresciuta ulteriormente rispetto a giugno 2012. Liquidità che viene acquisita a condizioni estremamente vantaggiose. Se, malgrado ciò, le Pmi vivono una stagione di sofferenza, di asfissia di credito, e quello che viene conferito è a tassi elevati, significa che si è interrotta la catena di trasmissione dal mondo finanziario a quello produttivo. Cosa si può fare allora? Viste le difficoltà da parte degli istituti di credito di finanziare le imprese, che per il 70% dipendono dalle banche, concordo nel cercare nuovi strumenti di finanziamento e adeguate misure di incentivazione fiscale. Accanto a cui si può pensare a ripristinare, aggiornandoli, vecchi modelli operativi di successo, come in Italia è stato il caso della vendita di macchinari attraverso la legge Sabatini del 1965. In un’ottica di costruzione concreta della casa europea, ribadisco con forza la via della priorità del sostegno al lavoro, rilanciando le Pmi, per ritrovare la crescita, e uscire dal rischio mortale di uno strisciante antieuropeismo per disperazione. Auspico, in definitiva, un’Europa resiliente (intendendo con questo
termine, usato in agricoltura, l’arte di adattarsi al cambiamento, trasformando le incertezze in occasioni e i rischi in innovazione) che trovi proprio nelle Pmi il motore di una crescita stabile e il solido punto di partenza per tendere verso obiettivi politicamente più ambiziosi .

Bini Smaghi. La politica nazionale ripete continuamente che c’è bisogno di più Europa, ma è la prima a ostacolare il trasferimento di poteri alle istituzioni continentali e a renderle più democratiche e più legittime. Molti economisti ritenevano, all’avvio dell’euro, che un sistema monetario integrato non potesse realizzarsi pienamente senza un’integrazione dei sistemi di vigilanza nazionali. D’altra parte, i rapporti predisposti dai gruppi di lavoro presieduti prima da Alexandre Lamfalussy nel 2001 e poi da Jacques de La Rosière nel 2009, composti in larga parte da esperti, proposero il rafforzamento del coordinamento tra le vigilanze nazionali, ma mai la costituzione di un organo unico: erano ben coscienti delle difficoltà politiche. Solo la crisi dell’estate 2012 ha spinto i capi di governo europei a concordare la necessità di realizzare un sistema di vigilanza integrato. L’esperienza recente è in linea con la storia dell’Unione europea, che in passato ha portato al rigetto di grandi disegni istituzionali, come la convenzione, e ha invece mostrato come l’integrazione possa avvenire solo quando diventa evidente la necessità di progredire, per non rischiare di cadere indietro. Così è stato in passato per il mercato unico, per la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e per la stessa moneta unica. Si può allora accettare di buon grado questo metodo di integrazione? Mi pare di poter dire che ci sono rischi non secondari. Prima di tutto, i tempi di crisi non sono i migliori per disegnare nuovi assetti istituzionali, soprattutto perché in simili frangenti rischia di venire meno la fiducia reciproca per trasferire a istituzioni sovranazionali, a struttura federale, la capacità di agire in modo efficiente. C’è la tendenza a creare istituzioni “intergovernative”, che decidono solo con il consenso di tutti, e dunque garantiscono a tutti il potere di veto. Questo è stato, per esempio, il caso del Fondo salvastati. Inoltre, in quei momenti non è sempre facile ottenere il consenso di tutti i paesi per procedere nell’integrazione. Non è detto, infatti, che la crisi colpisca tutti allo stesso modo e consenta di favorire ovunque il consenso per devolvere maggiori poteri alle istituzioni europee. La recente crisi bancaria, per esempio, ha colpito solo alcuni paesi, mentre altri sono stati in parte risparmiati, e hanno perciò fatto resistenza a rafforzare le istituzioni comunitarie. Questo metodo, come si vede, non è dunque perfetto. Ma paradossalmente è l’unico disponibile. D’altra parte la storia ci insegna che anche gli Stati Uniti hanno creato i pilastri del loro sistema economico solo dopo le crisi della seconda metà dell’Ottocento e dopo la grande depressione del 1929. Aspettarsi che l’Europa faccia dei salti in avanti senza crisi è, in definitiva, una mera illusione. Ma l’importante è non cadere indietro.

Sarcinelli. Credo di aver già mostrato a sufficienza le mie perplessità sulla possibilità concreta di costruzione di un edificio politico europeo. E riprendo dal punto di domanda che avevo lasciato in sospeso: vale la pena di impegnarsi a fondo nella modifica dei trattati per inserirci soltanto una funzione di trasferimento, limitatamente allo Srm? Non sarebbe più logico chiedere alla Germania, che nell’attuale configurazione della Ue ha il peso specifico prevalente, di mettere sul tavolo negoziale la sua offerta “federalista”? Approfitto di questa occasione per ricordare che l’appello promosso nei mesi scorsi da Paolo Savona e da me firmato va esattamente in questa direzione. Come si può intuire, il dilemma non è certo questione da poco; ma non si può fare finta di niente e ricacciare i problemi sotto il tappeto nel vano tentativo di ignorarli, se l’intento è quello di conferire credibilità a un percorso europeo realmente e politicamente unitario e concreto, cioè non rinviato.

Masera. In Europa abbiamo un sistema perverso, con un parlamento che fa tantissime cose, ma che in pratica è
una representation without taxation. Capisco la gradualità, però questo parlamento - che ha potere solo sull’1% del bilancio comunitario - è una distorsione del sistema. Quando l’Europa è stata salvata dal disastro? Quando la Bce, operando nel nome della stabilità finanziaria, oltre che monetaria intesa in senso stretto, è intervenuta a favore del debito sovrano. Non trarre insegnamento da questa lezione è cosa pericolosa, oltre che improduttiva, sull’effettiva volontà di costruire in questo decennio una realtà politica europea.

Focarelli. Prima di tutto - e non è secondario - bisogna comprendere quale dovrebbe essere la ripartizione delle responsabilità in termini di vigilanza macro-prudenziale tra la Bce e le autorità nazionali. La questione è regolata dall’articolo 4 della proposta di regolamento. La formulazione della previsione sembra indicare un approccio di tipo decentrato per la gestione della vigilanza macroprudenziale, anche se forse non in contrasto con un modello accentrato. Nel modello decentrato, infatti, la Bce valuta le condizioni macroprudenziali, mentre le autorità nazionali decidono e applicano gli strumenti nei loro rispettivi paesi. Il potere della Bce di fissare requisiti più elevati rispetto a quelli determinati dalle autorità nazionali servirebbe a evitare comportamenti troppo laschi delle autorità nazionali nelle fasi di boom. Sarebbe, forse, preferibile un modello accentrato in cui tutte le decisioni sono in capo alla Bce, mentre sarebbero di competenza delle autorità nazionali l’analisi delle situazioni locali e il potere di proposta degli interventi. Ciò potrebbe evitare comportamenti e approcci diversi tra i diversi stati, soprattutto per quanto riguarda le decisioni di rilascio dei buffer anticiclici che, se interpreto correttamente la normativa in preparazione, sarebbero delegate solo alle autorità nazionali. In una soluzione accentrata la Bce sarebbe allo stesso tempo - oltre che la banca centrale responsabile per la politica monetaria - anche l’autorità di vigilanza micro e quella di supervisione macroprudenziale.

D. E qui iniziano i problemi...

Focarelli. Già. Perché affidare le responsabilità microprudenziali a uno specifico board per la supervisione, le cui decisioni sono ratificate dal consiglio, non è una decisione di semplice implementazione. Ecco: andrebbe ulteriormente complicata per definire le modalità di decisione in materia di supervisione macroprudenziale. Non c’è dubbio, infatti, che, soprattutto nel momento delle decisioni di rilascio dei buffer, potrà emergere un potenziale conflitto di interessi tra la vigilanza micro e quella macro. Come risolverlo all’interno della Bce non è, peraltro, questione di facile soluzione. Secondo la relazione dell’advisory scientific committee di Esrb in materia ciò si potrebbe ottenere delegando direttamente al consiglio i poteri di decisione. La mia convinzione è che le banche centrali nascano per assicurare la stabilità finanziaria e che, quindi, a esse vada attribuito il compito della vigilanza macroprudenziale, che rappresenta un completamento dei poteri monetari. Al limite, è ben più dubbio che venga loro affidato il potere di vigilanza microprudenziale. Ma questa discussione ci porterebbe oggi in un vicolo cieco; di certo non aiuta il bizantinismo legalistico con cui si cerca di ritagliare un ruolo all’Eba come autorità indipendente (cioè diversa dalla Commissione) ma complementare alla Bce. Piuttosto, ritengo che sia fondamentale - e non rinviabile - la costituzione dell’autorità europea di risoluzione delle crisi e di un meccanismo europeo di garanzia dei depositi.

Senza queste due condizioni l’intero progetto dell’unione bancaria rischierebbe un grave insuccesso. E ancor più illusorio risulterebbe parlare di passi in avanti sulla strada, sempre impervia, dell’unione politica europea.

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