Conviene ricordare la scena. È il 28 settembre 2018 quando la pattuglia di ministri pentastellati si affaccia dal balcone di Palazzo Chigi in segno di esultanza per l'introduzione nel Def dei fondi necessari per dare il via libera al reddito di cittadinanza. Esultanza contraccambiata dai fan accorsi per l'evento. Affacci già visti a Roma e, precedenti storici alla mano, la cautela avrebbe suggerito modi più consoni per sottolineare il risultato ottenuto. Dopodiché, conviene tenere a mente quella scena, perché fotografa efficacemente l'inizio di un danno grave di cui l'Italia sta pagando le conseguenze. Un clamoroso autogol della malapolitica. L'aver iniettato denari pubblici in maniera così sconsiderata, favorendo il cosiddetto nullafacentismo statale accompagnato dalle sempre deprecabili formule e forme di vita economica sommersa (per intenderci, il lavoro in nero), ha prodotto effetti imbarazzanti. Partiamo dal più grave: ha impedito o ridotto di molto l'introduzione e la pratica di misure di contrasto alla povertà assoluta che devono essere circostanziate e di continuo verificate (l'annuale rapporto dell'Istat sulla povertà in Italia dice che nel 2021 vi sono oltre un milione e novecentomila famiglie in condizioni di povertà assoluta). Un Paese serio deve impegnarsi con decisione su questa emergenza per assicurare a individui e famiglie in oggettiva difficoltà (ovvero impossibilitati per motivi precisi ad uscire dalla condizione di indigenza) quel che è necessario per avere una vita il più possibile dignitosa. Il reddito di cittadinanza e vengo ad indicare il secondo elemento di gravità è l'ennesimo capitolo di uno Stato che capitola: sussidia i nullafacenti.
Applicando un metodo totalmente diseducativo. In quanto de-responsabilizza la persona. È l'elogio dello spreco. In misura notevole e preoccupante per quel che riguarda la finanza pubblica. Ma, soprattutto, umano. Uno Stato così è un povero Stato.
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