Eduardo, luci e ombre di un genio puro

De Filippo fu commediografo innovativo e resta inspiegabile la sua resa all'ideologia

Eduardo, luci e ombre di un genio puro

L'imbalsamazione laico-progressista di Eduardo De Filippo, di cui il 31 ottobre ricorrono i quarant'anni dalla morte, ebbe una prima consacrazione all'inizio degli anni Settanta, quando le edizioni Einaudi pubblicarono in quattro volumi, dal titolo Cantata dei giorni pari e Cantata dei giorni dispari, una scelta, 37 titoli, della sua opera di commediografo. Editorialmente ben curata, con tanto di cofanetto, edizione rilegata con sovracoperta, bella carta, la raccolta era però criticamente sciatta, non si capisce se per incuria dell'editore o per volontà dell'autore, una sorta quasi di lapide cimiteriale: nessuna nota ai testi, nessun inquadramento storico-biografico, un semplice glossario finale per facilitarne la lettura, anche se il napoletano di De Filippo, era, come dire, un po' risciacquato in Arno, piccolo borghese, più che popolare, come ebbe già a ricordare Roberto De Simone.

Il decennio che seguiva si aprì con la nomina di senatore a vita, accolto dalla sinistra indipendente, a opera di Sandro Pertini, la cui retorica partigiana gli faceva scambiare per resistenziale la retorica consolatoria di Eduardo. Pochi anni prima, del resto, c'era stato il finale modificato di Napoli milionaria (per la riduzione operistica con le musiche di Nino Rota), «'a da passà a nuttata» che diveniva «la guerra non è finita», fatto passare, con l'avallo del diretto interessato, per un ottimismo della volontà, l'Italia del terrorismo e degli anni di piombo che, insomma, non si arrendeva alle bombe. Il «fujtevenne», l'andatevene da Napoli, precedentemente rivolto ai giovani napoletani, lasciava però capire come l'ottimismo fosse di circostanza, e il pessimismo frutto di ragione.

Scontroso, diffidente e malmostoso, perché Eduardo si lasciasse coinvolgere in questo balletto di amorosi sensi ideologici, non è chiaro e si farebbe torto alla sua intelligenza se si mettesse tutto in conto all'età. Nato nel 1900, i suoi spazi come attore si erano certamente andati riducendosi nel tempo, e per chi era stato sulla scena per tutta la vita questa era una ferita non rimarginabile. A partire dalla fine degli anni Sessanta, era però il clima culturale ad essere cambiato: l'idea cioè che il comico, la risata, fossero di second'ordine rispetto al tragico e soprattutto all'impegno, politico e sociale. Impegnato Eduardo non lo era mai stato, e quando, come ne Il sindaco del rione Sanità, aveva cercato di andare oltre la sua Napoli, di presepi, ragù, piezz'e core, figlie e tazzullelle e cafè, aveva sfiorato l'apologia della camorra, anche se la critica amica e interessata l'aveva fatta passare per una denuncia dei mali della società corrotta. Il balletto di amorosi sensi ideologici gli sussurrava però all'orecchio che per la nuova Italia di sinistra e progressista, quella che guardava con malcelato disprezzo al «qualunquismo» di Totò e di Peppino De Filippo, il suo fratello tanto detestato quanto temuto per il suo genio d'attore, lui poteva essere il Pirandello ancora mancante, da portare in processione, nelle scuole, come alla televisione. Solo che Eduardo non era Pirandello; era solo Eduardo, che non era poco e avrebbe dovuto bastargli.

Il problema degli attori di teatro, e come tale Eduardo lo fu al massimo, molto più che al cinema, è che se non li si è visti sul palcoscenico non li si può capire. Restano, certo, le registrazioni televisive che però ne restituiscono un eco e che, come nel suo caso, appartengono a un'epoca, la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, in cui la sua maschera si era già, come dire, cristallizzata. Il trucco e l'illusione scenica compensavano, ma farse strepitose, come Sik Sik l'artefice mago, Ditegli sempre di sì, Quei figuri di trent'anni fa, Uomo e galantuomo, Natale in casa Cupiello, Eduardo le scrisse che non aveva nemmeno trent'anni e le recitava nella compagnia che aveva creato con Titina e Peppino, «I De Filippo», appunto. Chi, come me, ha avuto dei genitori in grado di vederli a teatro prima della Seconda guerra mondiale, capisce, a distanza di anni, il disappunto che essi provavano nel rivedere soltanto il primo in televisione con me che, ragazzino, rimaneva invece estasiato davanti al piccolo schermo: «Sì, è bravo, ma dal vivo era un'altra cosa». Ciò non toglie che alcune parole di quelle farse, a buatta, mannaggia a bubbà, te piace o presepe, la zuppa e latte, le entrate e le uscite di scena, i travestimenti, le intonazioni restano da manuale.

In quelle farse c' è un Eduardo sempre piccolo borghese, ma lì dove la piccola borghesia ancora confina e/o si confonde con il popolo, nei mestieri, nelle frequentazioni, nelle camere ammobiliate, nella miseria che si sforza di essere dignitosa.

Lo spartiacque fra il prima e il dopo, per Eduardo avviene con Napoli milionaria, che è del 1945 e dove, va ricordato, c'è la prima consapevolezza che quella guerra, per come è finita, nessuno la vuole più ricordare: «Quann'io turnaie a ll'ata guerra, chi me chiamava accà, chi me chiamava a'llà. Pe' sapé, pe' sèntere(...).Fatelo bere! Il soldato italiano! Ma mo' pecché nun ce vonno sèntere parlà?».

Gennaro Jovine al suo ritorno trovava un figlio ladro, una figlia prostituta, una moglie che si era arricchita con i taglieggiamenti del mercato nero e l'indifferenza per ciò che in guerra lui aveva vissuto.

Ciò che viene dopo, da Filumena Marturano a Sabato, domenica e lunedì, per citare i titoli più famosi, fa parte di quella Napoli di buoni sentimenti e di coesione sociale che oggi risulta ancora più anacronistica di quanto non lo fosse già negli anni Quaranta e Cinquanta, un fondale di cartapesta dove ogni litigio e ogni riconciliazione si svolgono in sala da pranzo, dove il piccolo borghese si è fatto commerciante in proprio, i soldi hanno preso a girare, i figli sono ancora rispettosi e la gelosia nei mariti è tanto mal riposta quanto datata: perché non mi ha stirato la camicia, perché non mi rammenda più le calze? Se ne capisce il successo all'estero, perché è un'immagine stereotipata ed eternamente in ritardo dell'italianità.

Se ne capisce il successo in Italia se si pensa al fatto che quei ruoli femminili furono il cavallo di battaglia di Titina De Filippo, Regina Bianchi, Sophia Loren, Mariangela Melato...

L'unica eccezione, questa sì pirandelliana, ma nella sottile presa in giro, nel tocco surreale e grottesco, è Questi fantasmi, dove lirrealtà diventa categoria interpretativa dell'esistenza, anche qui con battute che hanno fatto epoca («il fieto del miccio», «lo perdi, lo perdi», «'o fummo, o

guerriero, a capa d'elefante»). E con il celebre soliloquio sulla preparazione del caffè, seduto al balcone, parlando con l'invisibile professor Santanna. Perché come faceva il caffè Eduardo, dopo non lha fatto più nessuno.

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