"Eravamo 130mila, siamo rimasti in sette: gli ultimi ebrei di Bagdad"

Negli anni Cinquanta erano una comunità numerosa, poi il grande esodo. Ora uno dei sopravvissuti si racconta al New York Times: "Cerchiamo di uscire il meno possibile: due anni fa uno dei nostri è scomparso nel nulla. Pochi sono al corrente della mia fede"

"Eravamo 130mila, siamo rimasti 
in sette: gli ultimi ebrei di Bagdad"

Sono gli ultimi sette. Sette foglie d’autunno. Sette ebrei nella città dell’odio e della paura. Sopravvivono a Bagdad protetti da una cortina d’amicizie e complicità, ma sono prede ricercate, obbiettivi designati dal destino sempre più incerto. Mezzo secolo fa erano 130mila. Centomila presero il largo durante il grande esodo verso Israele degli anni cinquanta. Si ritrovarono in qualche centinaio negli anni 80. Sono rimasti in sette dopo il 2003 quando gli emissari dell’agenzia ebraica hanno trasferito in tutta fretta chi voleva emigrare in Israele.

Per trovarli, per comunicare con loro, l’inviato del New York Times che ha raccontato la loro storia sul quotidiano della Grande Mela ha impiegato mesi. Ha dovuto superare i sospetti, le ritrosie e le paure di chi teme di firmare la propria condanna a morte anche comunicando attraverso intermediari.

La prima lettera è il risultato d’interminabili trattative. In quel bigliettino - ricevuto dopo un giro vizioso di contatti - uno dei sette ultimi ebrei di Bagdad si descrive come il «rabbino, il responsabile della macellazione in città e uno dei leader di tutta la comunità ebraica in Irak». Sono cariche senza significato. Da solo quell’ultimo manipolo semita non basta neppure a recitare il rito dei morti, neppure, potendo farlo, a leggere in pubblico la Torah o a portare a termine le funzioni che richiedono la presenza di almeno dieci fedeli. Poco importa. Agli ultimi giudei di Bagdad è rimasto poco da celebrare. «Cerchiamo di uscire il meno possibile, recitiamo tutte le nostre preghiere dentro casa, l’ultima sinagoga della città è chiusa dalla fine della guerra e riaprirla significherebbe trasformarla in un obbiettivo», spiega il rabbino nei bigliettini indirizzati al New York Times di Bagdad e firmati con lo pseudonimo «nipote di Saleh». Quel soprannome è una necessità perché il nome di suo padre, un ebreo 87enne fuggito in Israele nel 2003 è troppo conosciuto e basterebbe ad identificare gli amici e i vicini che vegliano sulla sicurezza del rabbino.

Il «nipote di Saleh» è un quarantenne ex venditore di automobili, proprietario di una casa spaziosa in una zona residenziale della capitale. Ma è una cella di lusso. L’impossibilità di girare, il rischio di esporsi l’hanno costretto a rinunciare a qualsiasi vera attività. È andata così anche a gran parte dei sopravvissuti più anziani. Gli unici due che continuano a cavarsela, sostiene il rabbino, sono «due anziani dottori che continuano a esercitare la propria professione».
Tra i sette superstiti i legami sono ridotti al minimo. «Ci vediamo e c’incontriamo solo se è veramente necessario, solo se bisogna aiutarsi, se muore qualcuno o se si presenta la necessità assoluta di discutere insieme qualcosa d’estremamente importante». Ma anche quella solidarietà è ristretta, confinata alla cerchia degli ultimi sette. «Ci prendiamo cura - specifica il “nipote di Saleh” - soltanto della nostra comunità ebraica, non di chi è ebreo a metà o in parte». Anche seguendo queste precauzioni gli ultimi sette semiti rischiano la vita ogni qualvolta mettono piede fuori casa. Sulle loro carte d’identità, come su quelle di tutti gli iracheni, è indicata la religione d’appartenenza. E quella ebraica equivale a una condanna a morte. L’unica soluzione è «non spingersi mai troppo lontani dai propri quartieri», non abbandonare mai le strade dove tutti ti conoscono e, se possono, ti proteggono.

La paura di un’ultima definitiva persecuzione risale a due anni fa quando, racconta il «nipote di Saleh», un correligionario benestante e di mezza età svanisce nel nulla. «Ancora oggi - spiega - non sappiamo nulla di lui, non abbiamo capito se sia stato preso perché era ebreo, perché era facoltoso o se più semplicemente sia sparito nel nulla come centinaia di altre persone in questa città».

Né il «nipote di Saleh», né gli altri sei hanno però mai voluto dare ascolto ai discreti messaggi indirizzati loro dall’Agenzia ebraica pronta, come fanno sapere da Gerusalemme i suoi esperti, a organizzarne l’immediato trasferimento in Israele. «Sono orgoglioso di essere ebreo, non ho nulla di cui vergognarmi e non vivo nascondendomi», risponde il «nipote di Saleh» quando il giornalista del New York Times gli chiede perché lui e i suoi amici non abbiano mai accettato quelle offerte. Ma quando gli viene chiesto di descrivere le proprie speranze e i propri sogni il rabbino cede, confessa di sentirsi un uomo segnato.

«Per me qui non c’è più futuro, non posso sposarmi perché non ci sono donne ebree, non posso neanche coprirmi la testa con la kippah quando esco... se vivessi altrove potrei celebrare le feste, stare con la mia gente e recitare le preghiere alla sinagoga, qui no, qui siamo soli, soli e senza alcun futuro».

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