Il primo grande sconfitto dalla guerra di Siria è Barack Obama. Dopo settantamila morti e due anni d'indecisioni la Casa Bianca non sa più che pesci pigliare, ingrana la retromarcia e s'affida al «nemico» Vladimir Putin. Così - mentre il Pentagono accantona sia i piani per armare i ribelli, sia quelli di un possibile intervento diretto - l'amministrazione democratica scende a più miti consigli con Mosca e cerca la sua collaborazione per avviare un negoziato tra il governo di Damasco e l'opposizione armata.
La grande resa di Obama viene siglata martedì notte proprio a Mosca. Lì dopo un incontro con il presidente Vladimir Putin, preceduto da un umiliante anticamera di due ore, il segretario di Stato John Kerry - annuncia assieme al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov - la decisione di organizzare in tutta fretta una conferenza negoziale con la partecipazione di esponenti del regime e dei ribelli. «Vogliamo convocarla quanto prima possibilmente già alla fine del mese» spiega Kerry facendo capire che la Russia farà il possibile per convincere al dialogo l'alleato siriano mentre Washington si occuperà di spingere al tavolo della trattativa gli insorti. In 24 ore insomma John Kerry ribalta la linea politica seguita negli ultimi due anni dalla Casa Bianca e rinuncia persino a quello che ne sembrava l'invalicabile «linea rossa», ovvero il rifiuto a trattare con un regime guidato da Bashar Assad. «L'alternativa - si giustifica il segretario di Stato - è lasciare che la Siria vada dritta verso l'abisso, se non nell'abisso e nel caos».
Le giustificazioni non bastano a nascondere il peso di una sconfitta diplomatica senza troppi precedenti. Una sconfitta innescata dagli errori di valutazione di un'amministrazione convinta di potersi fidare del Qatar e ritrovatasi, seguendo la rotta tracciata da Doha, ad appoggiare i gruppi legati al peggior radicalismo islamico. Così per uscire da questa insana alleanza Washington rinuncia ai toni da guerra fredda con Mosca e cerca un compromesso. Vladimir Putin e i suoi sono ovviamente ben felici di offrirglielo. Dopo aver rischiato di ritrovarsi estromessa da tutti i giochi mediorientali Mosca è ansiosa di riacquisire l'antica influenza e si guarda bene dallo strafare. «Vorrei sottolineare che non siamo interessati al destino di certe persone, siamo interessati al destino di tutto il popolo siriano» spiega Lavrov facendo intendere di poter accettare anche l'uscita di scena di Bashar Assad se questa sarà decisa e concordata nell'ambito di un processo negoziale.
Ovviamente Washington deve ora fare i conti con i grandi assenti, ovvero con i gruppi dell'opposizione armata a cui ha tante volte promesso di non scendere a patti con Assad. I rappresentanti della cosiddetta Coalizione di Opposizione Nazionale mantengono per ora un imbarazzato silenzio mentre il loro portavoce di Londra Walid Saffour si dichiara «scettico» sull'iniziativa. Ma la difficoltà peggiore per Washington sarà ora sottrarre i gruppi armati all'influenza di Qatar, Arabia Saudita e Turchia.
Dopo il cambio di rotta Washington deve neutralizzare quegli «alleati» che puntano sull'opposizione armata siriana non per garantire una transizione democratica a Damasco, ma per esercitare un'influenza regionale e contrapporsi all'asse sciita rappresentato da Siria e Iran. Altrimenti rischia quanto successo 30 anni fa in Afghanistan dove l'influenza di Arabia Saudita e Pakistan, delegati ad armare i gruppi anti sovietici, traghettò molti mujaheddin nei campi di Al Qaida.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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