Altro che casta italiana: quella araba è da record

Nel "nuovo" Egitto ci sono tra i 5 e i 7 milioni di funzionari di Stato. E in Marocco il vero potere è in mano ai compagni di scuola del re

Altro che casta italiana: quella araba è da record

A piazza Tahrir al Cairo si erge con imponente grigiore il pa­lazzo del Mugamma. Se Tahrir è il simbolo della rivoluzione che nel febbraio 2011 ha messo fine all' era di Hosni Mubarak, lo sgrazia­to edificio di 14 piani è il simbolo di quello che la rivolta non è anco­ra riuscita a scrostare: la casta bu­rocratica che assieme a quella mi­litare amministra i privilegi in Egitto. È tra questi corridoi polve­rosi, in cui lavorano 18mila impie­gati pubblici, che i cittadini del Ca­iro si recano per qualsiasi docu­mento ufficiale: patenti, registra­zione di nascite, matrimoni... La confusione è grande, le code im­mense, il bakshish , la «mancia» all'usciere di turno, regolarizzata. L'incubo di una visita al Mugam­ma­è stato immortalato con comi­cità in un film degli anni Novanta. In «Al Irhab wal Kebab» («Il terro­rismo e il kebab »), un frustrato cit­tadino, il celebre attore Adel Imam, dopo ore di coda seque­stra un impiegato «fannullone»in­nescando l'intervento delle forze di sicurezza convinte che si tratti di un attacco terroristico.
Il Mugamma assieme ai nume­ri del nuovo governo egiziano, ma­stodontico esecutivo di 35 mini­stri, ricordano come il problema della classe dirigente organizzata in casta non sia soltanto italiano (a caso: il governo Prodi II aveva 26 ministri, il Berlusconi III 24). Il
comitato elettorale, il collegio tec­nico delle Forze armate, il consi­glio superiore della Cultura, il mi­nistero della Cultura, l'organizza­zione generale dei libri e docu­mentari nazionali, l'agenzia dei tunnel, e i mille comitati e agenzie pubblici sono alcune delle anime della complessa amministrazio­ne egiziana. Yasmine El Rashidi, sulla New York Review of Books , ha cercato di quantificare il nume­ro di impiegati pubblici in Egitto: forse 5,4 milioni ma qualcuno par­la di sette (su 80 milioni di abitan­ti).
La vera stranezza, però, è che l'ex governo ad interim post rivo­luzionario invece di tagliare ha as­sunto 300mila nuovi impiegati. Chi controlla la burocrazia con­trolla l'Egitto e i numeri sono oro. Il sistema Mubarak premiava le fa­miglie che lo sostenevano con po­sti pubblici, in cambio di una pronta mobilitazione elettorale. E non è un caso che l'ex premier Ahmed Shafik abbia quasi vinto le presidenziali di giugno. L'uo­mo dell'ex regime, infatti, cono­sce bene il funzionamento della struttura, non intaccata dalla ri­volta. Alla casta burocratica si ap­poggia quella militare. Molti alti funzionari, governatori e ammini­stratori locali, ma anche manager di aziende e compagnie pubbli­che, scrive su Foreign Policy Zei­nab Abul Magd, sono generali in pensione. Un esempio: il giudice Faruk Sultan, capo della Commis­sione elettorale e presidente della Corte Costituzionale che a giu­gno ha dichiarato illegale il nuovo Parlamento, è un ex ufficiale.
L'Egitto non è il solo Paese della regione a lottare contro una casta che per decenni ha bloccato la de­mocratizzazione.
Il Marocco ha un equivalente arabo per il termi­ne «casta». In arabo makhzen si­gnifica magazzino, quello dove in passato i funzionari del regno rice­vevano i salari. A Rabat, i manife­stanti del movimento «Venti feb­braio » gridano «Makhzen, déga­ge », via quell'élite politica forma­ta da consiglieri del re, notabili, al­ti funzionari, militari e uomini d'affari che controllano la politica e l'economia locale perché vicini al sovrano. Anche in questo caso, l'elezione che ha portato alla no­mina­a premier dell'islamista Ab­delilah Benkirane non ha cambia­to l'essenza del potere.
I più stretti collaboratori del re restano i suoi compagni di classe al collegio rea­le di Rabat: Mohammed Rochdi Chraibi, direttore del gabinetto re­ale; Mounir Majidi, il suo assisten­te personale e braccio finanzia­rio; Fouad Ali Al Himma, tra i più potenti consiglieri, si circondano di un gruppo di un centinaio di fi­dati che naviga tra la politica del regno e gli interessi personali del­la casta, denunciano gli attivisti.
In Tunisia, l'equivalente del
makhzen marocchino era ridotto prima della rivoluzione al clan del raìs Zine El Abidine Ben Ali e della moglie, Leila Trabelsi, che si divideva le quote di aziende stata­li e private. «In passato in Tunisia per fare affari dovevi associarti con alcuni personaggi della Fami­glia », aveva spiegato al Giornale pochi giorni dopo la caduta di Ben Ali a Tunisi un avvocato d'af­fari. E i cablogrammi di Wikileaks avevano già raccontato come la casta Ben Ali bloccasse l'investi­mento estero. McDonald’s negli anni Novanta aveva tentato di aprire in Tunisia ma aveva lascia­to perdere quando aveva capito che avrebbe dovuto intendersela soltanto con il clan.

Oggi, il nuovo presidente Moncef Marzuki dice che «ci vogliono pazienza e ottimi­smo »: la burocrazia è ancora «il principale ostacolo agli investi­menti, serve una nuova mentali­tà ».

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