È pura, è bionda, è «ariana» e vuole invadere l'Europa. O almeno tornare a farlo. Non è la Wehrmacht, ma molto più semplicemente la birra tedesca. Riconosciuta in tutto il Vecchio continente come un prodotto di qualità, né la chiara bavarese né la Pils più settentrionale stanno vivendo un momento d'oro. Ed è per questo che l'industria del settore cerca aiuto nel passato: la Germania ha chiesto all'Unesco di inserire il metodo tradizionale di produzione della bevanda nel patrimonio immateriale dell'umanità.
Perché oggi come 500 anni fa, la birra tedesca è prodotta secondo i rigidi dettami del Reinheitsgebot, l'editto di purezza proclamato nel 1516 dal duca Guglielmo IV di Baviera. Da allora gli unici ingredienti ammessi sono il malto d'orzo, il lievito, il luppolo e l'acqua. Formula dettata un po' dalla necessità e poi rivelatasi vincente: il raccolto era stato scarso e il duca decise che il frumento dovesse essere utilizzato solo per la panificazione. Da allora i tedeschi non hanno mai cambiato ricetta, tant'è che con la riunificazione (1990) la scura «Schwarzer Abt» prodotta nell'ex Ddr secondo un'antica ricetta di monaci del Brandeburgo ha perso l'etichetta di «birra».
Il mondo intanto è cambiato e alcuni dati indicano che l'industria tedesca della birra non ha saputo affrontare la globalizzazione: nel 2004 i birrifici erano 1.281, saliti a 1.339 nel 2012; nello stesso arco di tempo la produzione è calata da 108,3 a 94,6 milioni di ettolitri e le vendite hanno seguito lo stesso andamento. Le aziende birraie sono sempre più piccole e producono sempre di meno. Da oltre vent'anni poi l'Ue obbliga la Germania ad aprire anche alle birre estere. Risultato: importazioni quasi raddoppiate in otto anni (da 4,3 a oltre 7 mln di ettolitri) a fronte di esportazioni sostanzialmente stabili (circa 15 milioni di ettolitri).
Sulla mancata impennata dell'export, il presidente di Assobirra Filippo Terzaghi offre una chiave di lettura. «La Germania è ancora il principale esportatore in Europa e nel mondo, ma non ha saputo valorizzare il prodotto che, salvo pochi brand, viene esportato a volumi elevati ma a prezzi bassi». Il nord Italia, per esempio, è una delle regioni europee che più subisce questo dumping: la penetrazione commerciale c'è, ma è legata al basso costo. La globalizzazione ha fatto anche cambiare gusti ai tedeschi, e così come oggi gli italiani bevono sempre più birra, i teutonici vogliono sempre più vino. Nel 2004 il consumo pro capite in Germania era di 116 litri all'anno, nel 2012 di «soli» 105 litri. Nonostante la popolarità della bevanda, sembra che il settore non si sia saputo organizzare. Basta guardare alle multinazionali. La prima al mondo è belgo-brasiliana (Anheuser-Busch InBev), poi ce n'è una anglo-sudafricana (Sab Miller); seguono Olanda (Heineken International) e Danimarca (Carlsberg), e chiudono due giapponesi. La Germania brilla per assenza.
Ecco allora il senso della domanda all'Unesco. Ottenendo un riconoscimento di alto livello, Berlino spera di internazionalizzare e valorizzare un prodotto eccellente ma troppo chiuso su se stesso. All'Oktoberfest, per esempio, si può consumare solo birra prodotta entro la cinta muraria di Monaco. Con le mani legate dall'editto della purezza, i mastri birrai tedeschi non possono neppure sperimentare nuovi ingredienti. Tant'è che l'ultima trovata dalla Germania è quella di coltivare luppoli che portano nuovi aromi alla birra nazionale senza infrangere il proclama ducale. Nella lotta per la modernizzazione sulla testa dei tedeschi è caduta intanto una piccola tegola.
L'antitrust nazionale ha multato cinque birrifici per avere fatto «cartello» provocando un aumento dei prezzi. Ma i 106 milioni di multa, dicono gli addetti ai lavori, ricadranno tutti quanti sulle tasche degli amanti della bionda.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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