da Tel Aviv
Le bandiere d'Israele, i cartelloni e le mani dei manifestanti sono imbrattate di vernice rossa. Si sono dati appuntamento in un parchetto a pochi metri dal quartier generale dell'esercito, a Tel Aviv. I manifestanti non sono molti, neppure duecento, ma la loro richiesta in questi giorni è sulle prime pagine dei giornali israeliani. Sono contrari al rilascio di 26 prigionieri palestinesi che avviene oggi. È la prima di una serie di liberazioni (104 detenuti in tutto) e ha luogo a poche ore dalla ripresa, mercoledì, di colloqui diretti tra israeliani e palestinesi. Sulla prima lista di prigionieri che oggi fanno ritorno in Cisgiordania e a Gaza ci sono nomi di persone che hanno ucciso israeliani - soldati e civili - e palestinesi considerati collaboratori. Sono stati incarcerati prima degli Accordi di Oslo del 1994.
La loro liberazione è un evento che innesca forti emozioni, contrapposte, nella società israeliana e in quella palestinese, dove il rilascio di migliaia di detenuti è una delle condizioni richieste dall'Autorità nazionale per il ritorno alle trattative. «Siamo pazzi? Non lasciate andare gli assassini», è scritto su uno dei cartelloni alla protesta di Tel Aviv, dove sono molti i parenti delle vittime. Se in Israele i detenuti che saranno liberati oggi sono considerati «terroristi», nei Territori palestinesi saranno accolti da eroi della causa nazionale. «Per noi, questo è un prezzo troppo alto da pagare», spiega al Giornale Ayelet Tamam. Ha in mano il ritratto in bianco e nero di Moshe, suo cognato, «sequestrato e assassinato quando era soldato. Gli hanno sparato in testa, da dietro. Il suo corpo è stato ritrovato soltanto dopo quattro giorni». Era il 1984. La famiglia Tamam, come molti altri parenti delle vittime, ha firmato una petizione contro le scarcerazioni presentata alla Corte suprema, come già avvenuto nell'autunno del 2011 quando, per il rilascio del soldato Gilad Shalit, sequestrato a Gaza, Israele aprì le porte delle carceri a oltre mille detenuti palestinesi.
Le liberazioni di oggi - che trovano resistenza anche all'interno della stessa coalizione del premier Benjamin Netanyahu - sono una concessione israeliana alla vigilia della ripresa dei colloqui. Anche se favorevoli alla pace, molti parenti delle vittime non riescono ad accettarla, dice Ayelet: «Se fossimo sicuri che le scarcerazioni arrivano prima di un vero accordo, non sarei contraria, ma avvengono prima di semplici colloqui dall'esito incerto».
Se tra le famiglie c'è chi teme che i detenuti una volta liberi possano commettere nuovi atti di violenza, c'è anche chi pensa che il rilascio sia necessario. Il figlio di Robi Damelin è stato ucciso nel 2002 da un cecchino palestinese mentre era di guardia a un check point nei pressi di un insediamento. Oggi, sua madre è attiva in un'associazione di palestinesi e israeliani che hanno perso familiari a causa del conflitto. Non era alla protesta di Tel Aviv perché non si oppone alle liberazioni di oggi, le appoggia, come spiega al Giornale: «È così difficile per me dire questo, ma Israele deve capire che se vogliamo la pace, il rilascio di prigionieri è importante quanto la terra e il ritorno dei rifugiati per i palestinesi. Penso ai miei nipotini: non ci deve essere vendetta».
La conferma della scarcerazione dei primi 26 prigionieri è arrivata domenica. Lo stesso giorno, Israele ha annunciato la costruzione di circa mille nuove unità abitative a Gerusalemme est e in Cisgiordania.
La leadership palestinese ha criticato subito la mossa israeliana, parlando di «sabotaggio» degli sforzi americani per tornare al negoziato. E anche l'Unione Europea ha usato toni duri dichiarando che «gli insediamenti minacciano la soluzione a due Stati».Twitter: @rollascolari
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