Quei 500 jihadisti europei pronti a farci guerra in casa

Centinaia i militanti islamici partiti dai nostri Paesi per combattere all'estero. E Bruxelles è cieca: ora "regala" ai qaidisti in Siria il commercio del petrolio

Quei 500 jihadisti europei pronti a farci guerra in casa

La Siria e l'Europa, ovvero la tragedia e la follia. Il più crudele dramma mediorientale è anche il termometro della schizofrenia di un'Unione Europea che dopo aver portato al disastro economico alcuni dei propri Paesi minaccia ora di favorire l'infiltrazione di cellule jihadiste nel vecchio Continente. L'intervista in cui Gilles de Kerchove, coordinatore delle politiche antiterroristiche della Ue, denuncia la presenza tra le fila dei ribelli siriani di almeno 500 combattenti provenienti dall'Europa è l'ennesimo sintomo di questa follia. «Non tutti sono su posizioni radicali quando partono, ma molto spesso lo diventano durante l'addestramento sul posto… questo può comportare una seria minaccia quando ritornano», spiega Kerchove. Le parole segnalano l'evidente rischio per molti Paesi, Italia compresa, di ritrovarsi in casa delle cellule di Al Qaida.

La storia non è nuova. La prima metamorfosi di questo tipo risale agli anni Novanta quando gli emigrati musulmani presenti in Europa incominciano a frequentare i fronti delle guerre balcaniche convertendosi alla militanza integralista. Grazie a quei veterani jihadisti la moschea milanese di via Jenner diventa un punto di riferimento per Al Qaida. Lo stesso dicasi per la moschea londinese di Finnsbury Park, frequentata da uno dei dirottatori dell'11 settembre e da Richard Zeid, l'aspirante kamikaze con l'esplosivo nelle scarpe deciso ad abbattere un volo per New York. Ma l'Europa l'ha già dimenticato. Mentre De Kerchove lancia quell'allarme, Londra e Parigi premono per non rinnovare l'embargo sulle armi in scadenza a fine maggio e poter rifornire le fazioni anti Assad.

L'entusiasmo franco-britannico per la causa ribelle in Siria appare grottesco alla luce del rapporto sulla componente europea dell'internazionale jihadista pubblicato dal King's College of London. Secondo lo studio il nocciolo duro del corpo di spedizione europeo arriva dalla Gran Bretagna, con una presenza oscillante dai 28 ai 134 combattenti, e dalla Francia con un nucleo di circa 30/90 militanti. L'autolesionismo dell'Europa è confermata dalla decisione, votata lunedì scorso dai ministri degli Esteri dei 27, di cancellare l'embargo sul greggio siriano. Approvato a settembre 2011 per impedire a Bashar Assad di sfruttare i 380mila barili al giorno prodotti dai suoi pozzi, fu particolarmente doloroso per il nostro Paese. L'Italia già privata del 23 per cento delle importazioni assicurato da Tripoli dovette rinunciare anche al 3,2 per cento garantito dalle forniture siriane.

Rallegrata dalle notizie secondo cui i pozzi di Deir Ezzor, Hasaka e Raqqa, i tre principali centri di produzione del greggio siriano, sono ora sotto il controllo dei ribelli, l'Europa ha votato lunedì la cancellazione dell'embargo. Dietro il voto c'è la convinzione che i ribelli possano finanziarsi vendendo autonomamente quel petrolio. I machiavellici ministri degli Esteri europei, tra cui il nostro Mario Monti, sembrano però trascurare un piccolo particolare. I pozzi di Deir Ezzor, Hasaka e Raqqa non sono nelle mani di un gruppo ribelle laico e filoeuropeo, ma di Jabhat Al Nusra, la formazione qaidista - responsabile tra l'altro del recente rapimento di quattro giornalisti italiani - che auspica la creazione di un Califfato siriano. Chi non crede nelle sviste e conosce i rapporti tra la Francia - portabandiera dell'intervento europeo in Siria - e il Qatar, principale finanziatore delle milizie ribelli d'ispirazioni jihadista, ha subito ricordato l'analogo episodio della guerra a Gheddafi.

Allora le fazioni ribelli di Bengasi decisero di commercializzare il greggio della Cirenaica attraverso il Qatar. E la Francia subito approvò. Due anni dopo Francia e Qatar sembrano pronti a seguire la stessa strada. E l'Europa a restare, anche stavolta, a guardare.

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