di«Il salvataggio dell'Europa è già avviato» scrive il noto commentatore americano Fareed Zakaria sull'ultimo numero di Time; e - visto che a livello dell'Unione «italiano» ha cessato di essere una brutta parola - ne attribuisce buona parte del merito non al patto di stabilità fiscale firmato nei giorni scorsi da 25 Paesi su 27, ma a Mario Draghi per la sua decisione di mettere a disposizione delle banche, al tasso bassissimo dell'1%, quantità pressoché illimitate di danaro: per avere cioè compiuto indirettamente e senza toccare i trattati proprio quella trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza cui la Germania si era a lungo tenacemente opposta (e che non gradisce neppure ora).
La conclusione è presto tratta: se l'Europa riuscirà davvero a salvarsi, non sarà tanto per la volontà e l'opera dei singoli governi, che sotto la pressione dell'opinione pubblica devono tenere conto prima di tutto delle proprie necessità, quanto per l'intervento di istituzioni non condizionate da scadenze elettorali. In parole povere, se Draghi può fare l'europeo al 100% e riscuoterne giustamente il merito, questo non è possibile né per la signora Merkel, né per Sarkozy, né per Cameron né per Rajoy e nemmeno per il nostro Mario Monti, che pure è probabilmente il più «neofederalista» del gruppo e non ha problemi di rielezione.
Tutti trovano in fondo più conveniente «fare gli europei» in casa altrui che in casa propria: esigere cioè dagli altri il rispetto assoluto delle nuove regole, ed eventualmente di altre che vadano nella medesima direzione, quando sono conformi ai propri interessi, e tentare di svicolare quando essere in piena sintonia con Bruxelles comporti troppi sacrifici e troppi inconvenienti. Non parliamo solo della Germania che vuole imporre alla Grecia una politica di superausterità che i suoi cittadini considererebbero intollerabile, ma anche dell'Irlanda che approva il patto di stabilità fiscale ma lo vuole sottoporre a referendum, della Gran Bretagna che lascia il compito della stabilizzazione agli altri per non compromettere gli affari della City e della nostra Italia che vuole dall'Europa quella crescita e quello sviluppo che, per le note ragioni, non è stata in grado di produrre da sola ormai da vari anni.
Questa abitudine di «fare gli europei» in casa d'altri è nello stesso tempo l'inevitabile conseguenza della profonda diversità esistente tra le economie dei 27 (e, ancora più importante, dei Paesi aderenti all'Euro) e il più grosso ostacolo a quella maggiore integrazione che la situazione richiederebbe. É logico che oggi la Spagna, che ha un debito pubblico in regola ma la più alta disoccupazione del continente «scelga» dal mazzo delle soluzioni in discussione quelle che più si adattano alla propria situazione o che i Paesi della tripla A insistano sul rigore e slittino sulla solidarietà. La (forse eccessiva) frequenza delle scadenze elettorali accentua il fenomeno. Prendiamo il caso di Sarkozy, che dopo essersi presentato all'opinione europea come uno dei due salvatori della moneta unica, si trova adesso a lottare nelle presidenziali con un candidato che vuole rinegoziare (cioè mandare a gambe all'aria) il patto di stabilità fiscale appena sottoscritto e propone ricette dirigiste all'opposto di quelle dell'Eliseo. Deve tirare diritto e rischiare di perdere o cercare di salvarsi facendo a sua volta «l'europeo in casa d'altri»?
É in prospettiva futura che questi atteggiamenti destano le maggiori preoccupazioni. Quanto sta avvenendo dimostra ancora una volta che si può - occasionalmente - mettere il carro davanti ai buoi, cioè creare la moneta unica prima delle istituzioni necessarie a governarla, ma che viene il momento in cui della trazione dei buoi non si può più fare a meno se non si vuole che il carro si rovesci. Che l'Europa si trovi in uno di questi momenti è chiaro, ma, almeno stando a Zakaria, non trova l'unità per mettere davvero in cantiere quelle riforme istituzionali che appaiono indispensabili e deve essere salvata da un «cavaliere bianco» non eletto da nessuno e che agisce, apparentemente, di testa propria.
Sarà sempre così? É concepibile che a un certo punto finlandesi e portoghesi, italiani e olandesi, nonostante le differenti esigenze interpretino l'Europa nello stesso identico modo e si accordino (tutti!) su alcune innovazioni fondamentali? É la classica domanda da un miliardo di dollari (una volta era un milione, ma oggi farebbe ridere), cui alle speranze dei neofederalisti si contrappone lo scetticismo di chi ritiene che molto difficilmente le nazioni, se vogliono sopravvivere, possono cedere altra sovranità.
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