Se gli avamposti dell'Occidente si arrendono al terrorismo

Dopo la chiusura di 21 ambasciate Usa, blindate anche quelle inglesi, francesi e tedesche nello Yemen. È un'intollerabile sconfitta della civiltà

Se gli avamposti dell'Occidente si arrendono al terrorismo

Sarà un giorno indimenticale per Al Qaeda e per tutto l'esercito jihadista del mondo, un vero esempio per far vedere all'Occidente chi è il padrone. Perchè un'ambasciata è territorio nazionale di chi vi è rappresentato, è sacro suolo patrio, gli ambasciatori rappresentano per intero gli interessi e i valori del loro mondo, e così i loro collaboratori. Dunque, i terroristi possono fare festa: gli Usa chiudono oggi, per una giornata o più, le loro ambasciate in 21 Paesi dislocati su una così grande porzione della carta geografica nel Medio Oriente, nell'Asia del Sud e nel Nord Africa, seguite in Yemen dalla Germania, dall'Inghilterra e dalla Francia. I viaggiatori americani devono restarsene chiusi in albergo (e anche là non si sta tanto sicuri, la storia dimostra).

La minaccia di attacchi terroristici, che non viene spiegata nei particolari, è stata definita tuttavia «molto più seria» di quelle solite, il New York Times parla di informazioni di intelligence «credibili» legate a intercettazioni telefoniche. In questi giorni di conclusione di Ramadan e di inizio di Eid el Fitr siamo a un anno preciso dagli attacchi alle ambasciate che, celebrando l'11 di settembre, si scatenarono con un certo successo in vari paesi musulmani. Al Cairo un gruppo di dimostranti che urlavano, «Obama Obama, siamo tutti Osama» riusci a entrare tramite una breccia nell'ambasciata e a sostituire la bandiera a stelle e strisce con quella nera di Al Qaeda. Fu in quei giorni che l'attacco all'ambasciata americana di Bengasi portò all'assassinio dell'ambasciatore e di altri tre americani. Il gruppo aveva rapporti con il gruppo dell'Al Qaeda magrebina Aqim e, in Libia, con Ansar al Sharia. Fra gli attaccanti c'era un gruppo di egiziani esercitati da Muhammad Jamal al Kashet, un fedelissimo di al Zawahiri. Poi fu la volta di Sana'a in Yemen, dove l'ambasciata fu travolta dalle proteste guidate dal qaedista sceicco Maieed al Zindani, poi in Tunisia nel settembre 2012 l'ambasciata e stata saccheggiata da Ansar al Sharia, altro ramo di Al Qaeda. La minaccia adesso si ripete maggiorata, così seria da costringere in sostanza ad ammettere la propria impotenza.

La verità è che al Qaeda non è affatto «in fuga (on the run)», come ha detto Obama in campagna elettorale, ma anzi in un periodo di robusto recupero: gli affiliati di Al Qaeda-Iraq hanno attaccato Abu Ghraib e la prigione di Taji liberando 500 prigionieri, hanno fatto saltare 80 autobombe uccidendo 1000 iracheni, in Siria hanno aiutato a mettere in piedi, mandando il comandante Muhammad al Golani, l'organizzazione più estrema Jabat al Nusra, che ha preso la leadership della lotta dei ribelli. La Siria è diventata una roccaforte di jihadisti che vengono da tutto il mondo per combattere Assad, ma che si ripromettono usare il territorio per una jihad globale. Al Qaeda è forte nel Maghreb islamico e in Algeria, nel Mali, in Libia, in Pakistan. Scrive Dore Gold, presidente del think tank «Jerusalem Center for Public Affairs», che dal 2005, quando fece saltare tre alberghi a Amman, Al Qaeda punta a rovesciare il potere del re per conquistare la Giordania. Uno degli scopi è avere un comodo punto di partenza per distruggere Israele.

La Siria è oggi, col Sinai, la chiave di un cambiamento strategico di al Qaeda con un solo scopo: il califfato mondiale. Chi non lo crede possibile dia un'occhiata alla carta geografica per capire fin dove il suo potere è riuscito a chiudere le ambasciate americane.

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