In Usa i democratici sono i sondaggi. Riescono a far vincere tutti i perdenti...

Da Mondale contro Reagan a McCain contro Obama i "pollers" hanno eletto i candidati più improbabili. Eppure la corsa alla Casa Bianca è condizionata da questa altalena di numeri

Mitt Romney e Barack Obama all'Alfred E. Smith Memorial Foundation Dinner
Mitt Romney e Barack Obama all'Alfred E. Smith Memorial Foundation Dinner

Obama è davanti a Romney. Anzi no, il contrario, è Romney che sta davanti ad Obama. Sondaggi. Pericolosi come Jack lo Squartatore, affidabili come Giuda. Un numero più, un numero meno e cambia la strategia, le parole non sono più le stesse, gli elettori non sono più scontati. Niente è più democratico di un sondaggio. Prima o poi fa vincere tutti, anche solo per un giorno, ti fa re per una notte, per una notte puoi essere l’uomo più potente del mondo. Sembrano fatti apposta, a volte, per correggere sceneggiature scontate, ribalte noiose, spettacoli senza colpi di scena. Ci credono anche quando sembrano inverosimili, come le profezie dei tarocchi. Un sondaggio Gallup, tanto per raccontarne qualcuna, raccontò che la popolarità di Gary Hart, giovane e belloccio senatore del Colorado rivale democratico di Mondale, aveva superato quella di Reagan con il 52 per cento dei consensi contro il 43. Reagan, i suoi strateghi, il suo staff, impostarono così la campagna di conseguenza ma non s’è capito bene, visto come le si sono messe le cose di suo, se servì veramente. Hart, sposato, con figli, fu messo fuorigioco da Donna Rice, attrice, bella, esagerata e biondissima: lo beccarono a Miami stropicciarla su uno yacht, quando Corona aveva 10 anni, le foto erano chiarissime. «Fritz» Mondale invece fu seppellito da Reagan con 18 punti percentuali di differenza nonostante si presentasse con una donna, Geraldine Ferraro, come vice. L’America puritana non perdona. Ma anche la Storia sa il fatto suo.

In svantaggio nei sondaggi, per il «New York Times» e la «Cbs», finì anche George Bush padre che di Reagan era il vice. E si che il suo avversario Michael Dukakis, governatore del Massachusetts, anonimo nonostante un cognome che non passa inosservato e che si presta volentieri ai doppiosensi, era più noioso di lui. Dopo la Convention democratica sembrava aver così convinto gli americani, almeno quelli che non si erano assopiti ai suoi discorsi, da vantare il 47% dei consensi contro il 39% di Bush. Al contrario di Reagan Bush non stravinse, ma 7 punti di vantaggio non sono certo un successo di misura. Così più famosa di Michael diventò Olympia Dukakis, sua cugina, Oscar per «Stregata dalla luna». Ovviamente quattro anni dopo, elezioni successive, il mondo si capovolse. Bush favoritissimo, quindi giocoforza perdente: «Newsweek» gli regalò 48 elettori su cento contro i 44 di Clinton. Bush, come volevasi dimostrare, fu strapazzato: 9 punti sotto. Come sia riuscito a perderli non si capisce. A meno che i sondaggi non fossero bugiardi. E qui si ricomincia.

Nel 1996 più della metà degli americani pensava che Clinton dovesse gettare la spugna. Almeno secondo i sondaggi. Gallup rilevava per la «Cnn» e «Usa Today» che il senatore repubblicano Bob Dole, non più giovanissimo, poco carismatico, già vice di Gerald Ford, avrebbe battuto Clinton con il 51 per cento dei voti contro il 44 del giovane dem. Allora andava di moda Ross Perot, miliardario indipendente, texano e demodè, ma furbo come un grillo. Con lui in campo, la sentenza dello stesso sondaggio, «Dole vincerebbe con il 41 per cento con Clinton al 39 e Perot al 18». Naturalmente Clinton vinse di nove.

«Newseek» ancora. Imperterrito. «Al Gore ha il 46% delle preferenze contro il 42% di George W. Bush». Motivo: sulla politica fiscale 55 contro 38, le politiche pensionistica e sanitaria (58 contro 33) le proposte di Gore vincono su quelle di Bush. Morale? La solita: vinse Bush. Che quattro anni dopo, sempre «Newsweek», seppelisca sotto l’ennesimo sondaggio lo stesso Bush fa parte della politica del perseverare: «Kerry ha il 49% delle intenzioni di voto e Bush il 46%» la sentenza. Che spiega: «Se si tiene conto del candidato indipendente Ralph Nader però, Kerry è al 47% e Bush al 45%. Il margine d'errore del rilevamento è del 4%». Caso vuole che fosse in quel margine lì la sconfitta di Kerry. Ma i sondaggi si sa sono capricciosi come gli umori della gente se anche il vecchio John McCain, parola di un sondaggio Reuters/Zogby, fu re per una notte: cinque punti su Obama (46-41%). Su quale pallottoliere virtuale fossero stati calcolati non si sa.

Loro, i «pollers», si difendono come possono: siamo sempre sotto pressione, abbiamo mezzi limitati, le formule usate per aggiustare i risultati rompono più spesso di quanto riparino, gli umori della gente sono volubili, molti ormai ti rispondono scocciati, ogni Stato è diverso da un altro, ogni momento non è mai lo stesso.

Sarà, ma la corsa alla Casa Bianca è da sempre dominata da questa continua altalena di notizie, alimentata da un'industria, quella dei sondaggi appunto, che sforna fotografie sfocate e contraddittorie e mette un’ottantina di istituti diversi in competizione tra loro per un giro d'affari annuo di più di tre miliardi di dollari. Il sondaggista Neil Newhouse la prendeva con filosofia. «Quello che facciamo con i numeri è più arte che scienza». Non l’avevamo mica capito...

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