Come evitare la trappola del carisma

Non è lesa maestà affermare che, anche nell’epoca delle leadership mediatiche e dei partiti presidenzializzati, i partiti esistono perché la maestà di un leader deve sempre poter godere di sostegni e contrappesi. I sostegni servono quando una leadership – persino le più inossidabili – incontra delle fasi di debolezza o di difficoltà. I contrappesi sono necessari perché un leader non può essere sempre indispensabile e neppure può essere costantemente costretto a essere guardiano e garante dell’intero consenso di cui gode un partito.
In Europa è certamente tramontata l’epoca dei partiti di socializzazione di massa, le mastodontiche agenzie che si occupavano – come recitava uno slogan della socialdemocrazia tedesca – di fornire senso e idee all’esistenza dei militanti, accompagnando la loro vita dalla culla alla tomba. Oggi i partiti contemporanei non sono più gli unici canali di reclutamento alle cariche pubbliche, sono sfidati dai gruppi di interesse nella rappresentanza dei gruppi sociali, mentre la televisione e Internet surrogano molte delle funzioni che una volta svolgevano le strutture territoriali. Ma anche oggi, in un contesto politico radicalmente mutato, i partiti non possono ridursi a essere dei «partiti del leader» che legano il proprio destino e le proprie fortune esclusivamente alla biografia di un capo, diventandone una sorta di comitato elettorale permanente. Questi partiti, e ce ne sono in ogni sistema politico, soccombono a quella che si potrebbe definire la «trappola del carisma»: se il carisma non viene istituzionalizzato in una routine che crea organizzazione e produce classe dirigente al di fuori e al di là delle qualità politiche del leader, il partito è destinato a scomparire o a frammentarsi appena il suo leader entra in crisi o il suo carisma conosce una fase di appannamento.
Il Popolo della libertà nasce con l’ambizione legittima e percorribile di diventare il più grande partito di massa europeo per quantità di consensi e per numero di adesioni. Altre ragioni non esistono, visto che la leadership e il consenso di Berlusconi sono una funzione autonoma dall’esistenza di un’organizzazione di partito radicata sul territorio, essendo legati più alla cultura popolare, al senso comune e allo «spirito italiano» di cui Berlusconi è l’interprete per eccellenza. Il Pdl sorge come sigillo politico della lunga fase di transizione della seconda Repubblica, verso un bipolarismo che ruota attorno a due grandi partiti e ai loro alleati.
All’indomani del congresso fondativo, su queste pagine ho scritto un articolo intitolato «Fatto il popolo, bisogna fare il partito». L’operazione, va detto con franchezza, richiede tempi medio-lunghi, va compiuta in una fase in cui il centrodestra ha il vento in poppa ma non è semplice al tempo del governo, perché la maggior parte della classe dirigente del centrodestra è occupata nell’esecutivo, nelle istituzioni e negli enti locali, e l’esperienza storica insegna che ricoprire contemporaneamente ruoli istituzionali e ruoli dirigenziali all’interno di una struttura complessa come un partito da undici o tredici milioni di preferenze è quasi impossibile. Ma è un’operazione comunque necessaria, non procrastinabile per una serie di ragioni, prima delle quali la presenza della Lega come alleato di governo e come «competitore amichevole» nella raccolta del consenso al Nord (e non solo, ormai).
La Lega è un partito nato carismatico che però si è sviluppato nel tempo come movimento di massa, con sezioni disseminate sul territorio, una classe dirigente arrivata ai vertici dopo lunghi tirocini negli enti locali, un’agenda politica semplice e chiaramente riconoscibile attorno a temi come il federalismo, la sicurezza e il comunitarismo ultraidentitario. Con queste caratteristiche, sta incassando i dividendi più ghiotti dei successi del governo, perché è in grado di socializzarli quotidianamente nell’elettorato grazie alla sua rete di sezioni e di militanti. E dunque, la vicenda della Lega insegna che anche nell’epoca della politica mediatizzata e presidenziale la parola magica che dà lungo respiro ai partiti resta la militanza.
Una leadership popolarissima che ha saputo resistere al fango mediatico e gossiparo piovuto addosso è l’enorme valore aggiunto che il Pdl ha in Berlusconi mentre altri (e si vede) non hanno. I centri culturali, i new media, l’apertura alle energie nuove della società civile, la sburocratizzazione delle strutture, un’agenda politica concreta e post-ideologica sono ingredienti essenziali di un partito che non vuole assomigliare a un dinosauro intento all’occupazione dello Stato e delle istituzioni. Ma il Pdl si potrà fare partito forte e ramificato solo quando saprà cavarsela anche senza la supplenza costante del suo leader.
L’Italia ha bisogno di un grande partito patriottico e modernizzatore. Il Pdl deve completare al più presto la sua strutturazione territoriale, aprire i circoli, lanciare una grande stagione di adesioni, coinvolgere il Mezzogiorno nell’agenda di modernizzazione, cominciare oltre i momenti elettorali una vita di iniziative autonome anche rispetto al governo che è la sua espressione istituzionale e che ha bisogno di una costante legittimazione dal basso.

L’affermazione alle elezioni amministrative mostra che questo processo di definizione di una classe dirigente locale è stato attivato, ma è solo l’inizio. Accanto alle migliaia di rappresentanti servono centinaia di migliaia di militanti, da non convocare a intermittenza.

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