Ex fascisti ed ex comunisti uniti per la festa della Patria

Napolitano prima con La Russa sul Vittoriano, poi con Fini alla Camera. Le immagini simbolo delle celebrazioni per l’Unità sembrano un paradosso

Ex fascisti ed ex comunisti 
uniti per la festa della Patria

L’ultimo testimone del Novecento ce l’hanno in mano loro. Stanno lì da­vanti, dritti, istituzionali, con lo sguar­do alla Patria, davanti alla tomba del Milite Ignoto, quel soldato senza no­me di tutte le guerre, e per un attimo pensi alla loro storia personale. Gior­gio Napolitano e Gianfranco Fini si stringono la mano. Forse questa è davvero la fine di una stagione lunga più di un secolo. I due presidenti non sono italiani qualunque. Uno ha vis­suto gran parte della sua vita da comunista, l’altro è stato l’ultimo segretario di un partito post fascista. Guardi questa immagine, questo col­po d’occhio, e ti viene in mente che in fondo è strana. È una rive­lazione, improvvisa.Davanti al­­l’altare spunta anche la barba di La Russa che scambia due battute con Napolitano. Il ros­so e il nero non esistono più. I centocinquanta anni del­l’Unità d’Italia raccontano an­che questo. Non ci sono solo le bandiere in piazza, i ricordi del Gianicolo, lì dove i patrioti del­la Repubblica romana moriro­no in una disperata resistenza ai francesi poco napoleonici e molto papalini, e il controcan­to leghista. Ci sono anche Napo­litano e Fini. Ci sono le due ideo­logie del vecchio secolo che si riconoscono nella patria. Co­me se finalmente la patria fosse una, sola, senza guerre civili, senza sangue, senza dittature, senza utopie, senza camerati e compagni, senza arditi e ope­rai, senza classi e nazioni. Ti vie­ne quasi da sognare che questa Italia sia l’unione di individui, senza etichette, semplicemen­te uomini e donne con una sto­ria e una terra comune. Ma sai che probabilmente non sarà mai del tutto così. Questo è un popolo che ha bisogno di ban­diere partigiane e quando non ne trova una se la inventa. Il ros­so e il nero, i guelfi e i ghibellini scorrono nel sangue. Anche adesso, anche ora che le vec­chie ideologie totalitarie puzza­no di naftalina e c’è sempre qualcuno che ha nostalgia di ti­rarl­e fuori dalle cassapanche di­vorate dai tarli. Non fa niente. Per ora godiamoci la scena. L’ex comunista e l’ex fascista ci dimostrano che in politica nulla si crea e nulla si rinnega. Ma tutto passa. La loro presen­za lì, come simboli, come epifa­nie, è il segno di quel Novecen­to che ci portiamo dentro. È quella spaccatura che si basava sul non riconoscimento dell’al­tro. Era la guerra santa degli in­tellettuali, che nell’uno e nell’al­tr­o caso si ripromettevano di co­struire l’uomo nuovo, di pla­smare e modificare l’italiano, magari non all’altezza del desti­no o della storia, non abbastan­za etico, imperfetto, con quella tentazione perenne al qualun­quismo o al fatalismo, che qual­che volta è un male, altre ti ri­sparmia un po’ di ghigliottine. Gli italiani prima o poi si trova­no a fare i conti con qualcuno che li vuole diversi.La tentazi­o­ne dell’uomo nuovo non è mai tramontata. Anche adesso ci stiamo ricascando. Ma siamo un Paese di predicatori e di fede­li distratti. Questo lo sa bene pure la Chiesa, che di scomuniche e in­dulge­nze plenarie ne ha dispen­sate tante. La speranza è che an­cora una volta l’italiano si riveli migliore delle proprie ideolo­gie. In fondo, nel 1961, quando l’unità festeggiò i suoi cento an­ni, chi avrebbe scommesso su un comunista e un fascista fian­co a fianco davanti all’altare del Milite Ignoto? Nessuno. Quelli erano tempi di miracolo econo­mico, ma i maestri lavoravano per la rivoluzione e a breve la «meglio gioventù» si sarebbe presa a sprangate in faccia e P38 nella schiena. La stagione dei Napolitano e dei Fini sta per finire. Questa giornata di orgoglio patriottico archivia il passato. I carriarma­ti a Budapest o a Praga, il ’68 e il saluto romano, le camicie nere e l’eskimo, sono pezzi di storia in bianco e nero. I fasciocomu­nisti appartengono al Novecen­to. Qualcuno guardandoli si chiederà: ma siamo ancora fer­mi lì? No, il passato deve passa­re.

Il futuro dell’Italia è nelle mani di chi in quegli anni non c’era o era troppo piccolo per ricordare. Chissà che questa volta non si riesca a «sfangare» una storia spezzata in due. Non ci meritiamo altri 150 an­ni consumati a non riconoscer­ci nell’occhio dell’altro.

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