"Faccio arte con Rete e social: per me sono come pennelli"

Per realizzare le sue opere usa ricami, video-installazioni e Internet. Così è diventato la "rockstar" tra i performer italiani

"Faccio arte con Rete e social: per me sono come pennelli"

Francesco Vezzoli, bresciano classe 1971, è la rockstar dell'arte italiana. Artista poliedrico, eppure dall'identità precisa e identificabile nel suo parodiare le ossessioni contemporanee mescolando alto e basso, kitsch e chic. Una breve retrospettiva: esordisce nel segno di ricami a piccolo punto e lacrima in lurex, seguono i video sull'onda dello spiazzante OK the Praz is right! (Ok il Praz è giusto! E il riferimento è a Mario Praz uno dei più raffinati intellettuali italiani del secolo scorso). Nel 2001 è alla Biennale di Venezia con un'opera fra l'installazione e la performance. Sbarca oltre Oceano e fa incetta di divi puntualmente scritturati per i propri video: i grandi ci sono tutti, da Sharon Stone a Kate Blanchett, Benicio del Toro, Natalie Portman, Eva Mendez, Lady Gaga Chiude con il mondo patinato statunitense per rientrare in Europa e rileggere, a modo suo, l'antico e la sua verità. Nel frattempo entra nei templi dell'arte, Guggenheim, Tate, MoMA, MAXXI, MOCA. Con la Fondazione Prada è innamoramento, l'ultimo dei lavori condivisi sono le Love Stories. Sull'account Instagram della Fondazione l'artista Vezzoli ha esplorato lo stato emotivo della comunità online, invitata a scegliere tra due opzioni-affermazioni associate all'immagine di una coppia.

La cosa più inaspettata del sondaggio Instagram?

«Che la foto più visualizzata è quella di Marina Abramovich di profilo: la foto meno fotogenica, la più astratta delle 50 selezionate. Cosa ci dimostra? Che il pubblico non si è lasciato sedurre dall'aspetto romanticizzante di questa o quella coppia. L'altra cosa bellissima sono i commenti e le reazioni del pubblico. Sono grato a tutte le persone che hanno accettato di partecipare a questo gioco trasversale e che hanno offerto commenti inaspettati e coraggiosi. Penso a Salvatore Settis, all'ex-direttore della Tate Chris Dercon, a Elizabeth Diller. È accaduto esattamente quello che volevo, Umberto Eco ne avrebbe parlato in termini di opera aperta, io aggiungo: spalancata».

Quindi si può fare arte anche con i social.

«Ho usato Instagram come un pennello trasformando l'accesso all'opinione e alle reazioni delle persone in uno strumento d'indagine e di costruzione di una mia narrativa. I musei devono confrontarsi con la digitalizzazione. La Fondazione Prada, per esempio, ha offerto la sua piattaforma per un progetto diverso».

Vogliamo chiarire cosa si intende per arte digitale e museo digitale?

«Arte digitale non vuole dire riprendere una mostra e mettere il filmato su supporto digitale, non è posizionare un drone nel museo. Va fatto uno sforzo ulteriore creando un ponte con la digitalizzazione del pensiero. È questa la grande sfida: filtrare le informazioni e semplificarle a livello quasi parossistico. Tra l'altro è l'opposto di quanto fatto da Fondazione Prada che fino ad ora ha prodotto mostre articolatissime, profonde, con opere dalle didascalie abissali, eppure ha raccolto la sfida per capire cosa passa per la testa e i cuori delle persone.

Cosa rivendica a sé?

«Il coraggio. Poco importa se il progetto piace o no. L'importante è che si riconosca che è stato fatto un tentativo diverso. Confrontarsi con la semplificazione del pensiero posta dalla digitalizzaizione è una delle sfide del 21esimo secolo».

In maggio è scomparso Christo. Vi siete mai incontrati?

«No, ma all'alba del giorno d'apertura del suo The floating Pears ero già lì, sul Lago d'Iseo. Prima dell'installazione a Central Park, Christo era snobbato dai galleristi e dal sistema museale di New York. L'America è arrivata in ritardo rispetto alla grandezza del personaggio, benché fosse un artista con credibilità concettuale e grandiosità formale».

Qual è il suo lascito?

«Christo rappresenta tutto quello che un artista dovrebbe essere. Ha incarnato l'arte che nasce concettuale, utopica e con una fortissima urgenza anche nella sua utopia. Molti artisti sfioriscono quando si rendono conto che l'aspetto utopico del lavoro diventa realtà, dà visibilità e accessibilità. L'accesso e il successo sono i peggiori nemici dell'utopia che resiste solo se c'è una grandissima convinzione. Christo non ha mai smesso di crescere, è stato geniale anche nel gesto verso New York, lì non impacchettò, giocando con lo snobismo intellettuale dei newyorchesi, li ha fregati alla grande. Mi rattrista vedere che sono pochi gli artisti con quello stesso grado di utopia. Del resto, oggi dominano le fiere e le aste, e cosa c'entra Christo con esse? Nulla, sono contenitori troppo piccoli per lui. Christo dentro una fiera è come Gloria Swanson in Viale del tramonto visto sull'iphone. Abbiamo bravi critici d'arte, grandi teorici ma sarebbero benvenuti i grandi esperti di industria dell'arte.

Come si passa dalla Brescia regina dell'acciaio, della gomma, del tessilea Londra e new York?

«A Brescia sono nato, cresciuto e ho studiato, tra l'altro nel severo Liceo classico Arnaldo».

L'istituto la cui fama è sintetizzata da un'espressione: se sgarri, esci.

«Studiavo 12 ore al giorno, i professori godevano di grande rispetto in città, si sapeva che preparavano i migliori. In quell'epoca, ogni città lombarda aveva una scuola di questo tipo: pubblica, elitaria ma meritocratica, aperta al figlio dell'industriale e dell'operaio. Alcuni insegnanti furono un incubo, ma a loro devo le conoscenze che poi riciccio nelle interviste».

Com'era il docente di Storia dell'Arte?

«Molto equilibrata, pacata. Ma il professore del cuore era quello di latino e greco, fantastico, a lui devo l'innamoramento per questa cultura. Ci parlava di cose incredibili, ispirava».

A 18 anni era a Londra. Brescia le stava troppo stretta?

«Mi stava stretta da un punto di vista sessuale. Dovevo fare i conti con l'ormone. L'avevo tenuto dentro a 15, 16, 17 anni, ma a 18 scoppiò. E farlo scoppiare nella Brescia di allora avrebbe fatto scoppiare il finimondo. Andando a Londra feci un gran piacere a tutti».

Fu ammesso alla Central St. Martin's School of Art. Un sogno realizzato.

«E qui, grande indigestione di Studi di genere e Studi sociali, utili - in seguito - per sembrare politicamente corretto. Passare dall'élite del liceo di Brescia alla contro élite della Saint Martins fu un bel ribaltamento. Entrai nel mondo della classe lavoratrice inglese. All'interno della gerarchia scolastica ero guardato come un insopportabile fighetto. Rieccoci. Nel liceo italiano, i figli degli industriali mi guardavano dall'alto in basso, e alla Saint Martins, dove speravo di aver conquistato il paradiso della libertà, ero snobbato. Di nuovo al momento giusto nel posto sbagliato. Sbagliato si fa per dire, perché ero in una università dove nel 1991 ti facevano conoscere Judith Butler e i Gender Studies, libri che tengo nella casa di Brescia assieme ai testi di greco e latino. Per dire che questi temi, alla ribalta negli ultimi anni, sono per me oggetto di vecchi studi».

La tesi di laurea?

Sui sottotesti omoerotici delle soap opere brasiliane. Roba da sfilata di Parigi del 2018.

E cosa portò con lei di quella città in fermento?

«Stavano nascendo gli Young British Artists, l'ultimo movimento della storia dell'arte definibile come tale. Imparai tantissimo. Erano figure molto diverse l'una dall'altra, ma accomunate dal fatto che non avevano paura di affrontare la dimensione mediatica e questo aspetto influì molto su di me. Vedevo questi artisti sulla prima pagina del Sun, era come se - tornando a quel periodo - Francesco Clemente fosse sulla prima pagina della Notte o su L'Occhio di Maurizio Costanzo».

Lei fino a quel momento era cresciuto a pane e?

«I miei genitori mi avevano educato agli artisti dell'Arte Povera, e a Londra vidi artisti che erano anche personaggi da tabloid.

Perché a un certo punto è andato negli Usa e poi ha chiuso anche con New York. Come mai? Aveva contatti pazzeschi.

«Il clima culturale iniziava a diventare abbastanza insopportabile. Faticavo a riconoscermi in chi toglieva dalla biblioteca della Columbia University le Metamorfosi di Ovidio poiché contenenti passaggi politicamente scorretti. Cito questo episodio in sé banale, ma è sintomo di un clima che andava deteriorandosi».

Ed eccola a Milano.

«Dove, non lo dico per piaggeria, tante istituzioni compresa la Fondazione Prada stanno allestendo mostre da leccarsi i baffi».

Che cosa le piace di Milano?

«Le proporzioni bellissime che favoriscono l'interazione umana. Dove c'è vicinanza c'è stimolo, invece New York ha una conformazione tale da impedire la vicinanza perché avendo costi così alti, tutto diventa gerarchico, è uno zoo con la gabbia dei più fortunati e dei meno, un sistema che allontana».

Milano sta ripartendo, campionessa di reattività.

«Ho una teoria. Se dividiamo la storia dell'arte nei dieci periodi fondamentali immaginando che ognuno contenga all'incirca 200 anni, Roma è presente con i capolavori più importanti almeno in otto di questi periodi. Roma non è neppure imbattibile, è semplicemente fuori misura, irraggiungibile. Noi, per fortuna o sfortuna, non siamo soffocati da questo peso di magnificenza: più che avere, siamo. Abbiamo solo il nostro essere, la nostra forza. Non possiamo arrampicarci su facciate barocche, non le abbiamo. E poiché siamo, dovremo scavare dentro di noi. Mentre lavoravo con Kate Blanchett, mi sono reso conto di cosa faccia un attore per arrivare a interpretazioni da Oscar: deve scavare dentro di sé. Il paragone con un'attrice può sembrare blasfemo, però in questa fase psicanaliticamente delicatissima dovremo scavare dentro di noi e arrivati al fondo trovare la forza e l'istinto per ripartire».

Fra i divi di Hollywood con cui ha lavorato, chi supera tutti in magnetismo?

«Penso a un'attrice che non c'è più, Jeanne Moreau. Ha fatto la storia, aveva amato Louise Malle, spostato William Friedkin, era la migliore amica di Truffaut, aveva cenato con i presidenti americani, francesi, italiani. Pierre Cardin, benché gay, all'apice del suo successo la seguiva in tutto il mondo chiedendole di sposarlo. Moreau non aveva un magnetismo fine a se stesso, quello che riesce così bene alla Jolie che basta si tocchi un capello e un maschio eterosessuale sviene, e lo capisco. Moreau aveva la storia, aveva vissuto, non era una fatalona. Un giorno, a Parigi, dopo una cena, vedendomi intimorito mi disse: Vieni a casa mia". Una volta lì - Vedi? Vivo in modo normale. Il suo era un magnetismo del cervello».

Lei è riuscito a far recitare gratuitamente i più grandi divi di Hollywood, personaggi che si muovono solo al suono del denaro e di tanto denaro. Come ha fatto?

«Money is money, ma Brescia è Brescia, e la disperazione è disperazione. Solo la provincia ti può dare una forza che ti fa dire: fallo per me. Quando senti dentro di te un forte bisogno di creare determinate cose, e sai che per crearle hai bisogno della partecipazione di queste persone, alla fine riesci a comunicare loro tale bisogno, non avverti nulla di umiliante. Poi a un certo punto, quando ho sentito che avevo esaurito questo ciclo, dopo aver lavorato con i personaggi più iconici, mi sono fermato».

Lei fu profeta Con Democrazy (2007), la video installazione in cui Sharon Stone e Bernard-Henri Lévy si contendono la presidenza degli Usa.

«È un complimento e me lo prendo tutto.

Fu Mark McKinnon, stratega di politica americana in quei giorni impegnato nella campagna di McCain, a preparare lo slogan per lo spot di Sharon Stone, Make America Strong. Sarebbe stato lo slogan di Trump. Ma la Stone avrebbe governato meglio».

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