La famiglia Dall’Ava vuole esportare il San Daniele nel mondo

La ricerca della qualità è una sfida che non ha mai fine e si rinnova di giorno in giorno, a San Daniele del Friuli di prosciutto in prosciutto perché questo è uno dei 149 Comuni italiani, su un totale di 8.100, che dà il nome a un capolavoro dell’agroalimentare italiano, dal Barolo al Salame di Felino, dal Gavi alla Spalla di San Secondo. Bontà che si rinnovano perché produrre un signor prosciutto, e quello di San Daniele nasce lì e in nessuno altro borgo friulano, è solo un tassello di un mosaico ben più grande. Lo sanno bene al consorzio, che ha da poco curato un libro che esalta «30 ricette d’autore per reinventare un classico», info 0432.957515, prosciuttosandaniele.it, piatti pensati per andare oltre l’arcinoto panino, e lo sanno bene anche Natalino e Carlo Dall’Ava, padre e figlio, radici venete e lunga vita furlana, esaltata dalla loro ultima idea.
A Natalino si deve nell’82 l’apertura del prosciuttificio Castello, poi ribattezzato Dok, che non è un acronimo, che non ha un vero significato ma che richiama la qualità perché fa il verso alle Doc del vino. Sei anni dopo Carlo apre la prima prosciutteria al mondo: solo pasta e solo prosciutto. Altri sei anni e, seccati per la popolarità mondiale del patanegra spagnolo, si inventano il Patadok, il maiale nero iberico allevato alla stato brado e da loro lavorato come un San Daniele a San Daniele. Seguirà la sandanielizzazione prima delle cosce dei maiali siciliani e poi di quelle dei maiali ungheresi, il Nebrodok e l’Hundok.
L’ultima impresa è vinta a suon di mattoni e di legname, legati da tanta pazienza. Siccome siamo in Italia, per avere una concessione edilizia, e trasferire così la sede nel nuovo opificio, devono attendere 13 anni. I lavori iniziano nel 2004 e si concludono nel 2007. Ora si è reduci, stesso indirizzo, via Gemona, stessa insegna, da una seconda inaugurazione. L’idea che ha mosso i due Dall’Ava è portentosa e mira ad azzerare le difficoltà che i produttori di prosciutto, tutti, incontrano quando devono esportare i loro prodotti: «Noi invece vogliamo replicare il nostro sistema in tutti e cinque i continenti», parola di Carlo.
In solo polo abbiamo il prosciuttificio, dove il prosciutto viene fatto; la prosciutteria, dove viene pappato; il negozio, dove viene venduto; il museo, dove viene onorato, e la scuola «dove intendiamo formare i nuovo prosciuttai». Facile spiegare la magagna tricolore. La Dok firma 30mila prosciutti l’anno, un goccia in un mare di 36 milioni di pezzi nell’Italia intera. A Parma ne timbrano 9 milioni, a San Daniele poco meno di tre, poi ci sono i prosciutti toscani, quelli veneti, aostani, marchigiani... per un altro milione e mezzo di pezzi.

Domanda: e tutti gli altri? Così cresce la domanda di qualità certa: «Guardiamo a Giappone e America dove però il consumatore va educato e così i nostri clienti ci chiedono di formare i loro addetti al banco perché imparino come si disossa, conserva, annusa, taglia». Ecco così l’università del prosciutto.

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