Fantasia, cultura, ironia. Ecco l'arte di Dosso Dossi

Dal Giove pittore all'Ercole fra i pigmei, le geniali invenzioni che spiccano nella storia del '500

Fantasia, cultura, ironia. Ecco l'arte di Dosso Dossi

Al Palazzo dei Diamanti di Ferrara è in apertura la mostra sul Cinquecento, con quattro grandi artisti, Ludovico Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso Dossi. Del più noto, quest'ultimo, per intendere la fantasia letteraria, e la particolare invenzione della creatività ferrarese, è eloquente il Giove pittore di farfalle di Cracovia, ispirato a Leon Battista Alberti, dove la pittura esercitata dal primo degli Dei, con la tutela complice di Mercurio, prevale su ogni virtù. È evidente che nella figura di Giove sia adombrata quella di Alfonso I, grande cultore dell'arte, e si vede in Dosso la memoria delle pitture romane di Raffaello e Michelangelo. In Dosso c'è un rapporto stretto e intenso con la letteratura, come rimarca con rapida intuizione Giorgio Vasari: «Dosso pittore ferrarese; (...) se bene non fu sì raro tra i pittori come lo Ariosto tra' poeti, fece pure molte cose nella arte, che da molti sono celebrate, et in Ferrara massimamente. Laonde meritò che il poeta, amico e domestico suo facesse di lui memoria onorata ne' chiarissimi scritti suoi. Di maniera che al nome del Dosso diede più nome la penna di M(esser) Lodovico universalmente, che non avevano fatto i pennelli et i colori che Dosso consumò in tutta sua vita».

Lo troviamo a Ferrara dal 1513, anche se la sua formazione, e alcune opere, oltre a quelle indicate come incunaboli da Roberto Longhi, risalgono a prima del 1510, come il Buffone della Galleria Estense di Modena e il Gige, Candaule e Rodope della Galleria Borghese, negli anni in cui si muove con Lorenzo Costa a Mantova e con i grandi veneziani, Bellini, Giorgione e Tiziano, con i quali si misurerà nel camerino delle pitture del duca, del quale sopravvivono i capolavori di Bellini e Tiziano, ma non di Dosso. Residente in Castello, amico e compagno di viaggi di Alfonso, Dosso è attivo nei numerosi cantieri aperti dal duca e dalla moglie Lucrezia Borgia, nello stesso Castello come nei palazzi fuori le mura anche per intonaci, decori, apparati teatrali. Marialucia Menegatti puntualizza: «Ai primi mesi ferraresi appartengono dipinti che avrebbero potuto costituire un punto fermo nella ricostruzione dell'attività giovanile del pittore, ma di cui resta solo traccia documentaria: una Madonna col Bambino e altre figure con cornice dorata intagliata (...) con quattro lettere d'oro. M.D.X.V. e quattro punti sotto del Dosi di ferrara (...). Quale sia l'effettivo contributo di Dosso al camerino, quella Baccanaria tanto buona da meritare la lode di un Vasari altrimenti assai poco generoso nei confronti del nostro, è questione ad oggi dibattuta. Tutte le ipotesi di identificazione finora avanzate hanno chiamato in causa dipinti perduti - un'affollata composizione con il dio Vulcano in evidenza citato negli inventari seicenteschi della collezione Aldobrandini - o dipinti di controversa attribuzione, spesso in precario stato conservativo e di difficoltosa lettura iconografica».

Ma è evidentemente da qui che nasce la personalissima fusione di Dosso tra il Tiziano degli Idilli giovanili, e Raffaello, in particolare la Madonna di Foligno, come si vede nella pala con l'Apparizione della Madonna ai santi Giovanni Battista e Giovanni evangelista per il duomo di Codigoro (oggi agli Uffizi), e in dipinti di piccolo formato come la Zingarella di Parma, i Viaggiatori nel bosco di Besançon, il Ritratto di guerriero degli Uffizi.

Per vederlo nella piena maturità occorre arrivare al 1521 con la pala di Modena, in una condizione nella quale si misura direttamente con Michelangelo, dopo un possibile viaggio a Roma in quello stesso anno, senza perdere il rapporto con Tiziano, in quel tempo attivo per Brescia con il Polittico Averoldi, come era già stato con il Bacco e Arianna per il camerino di Alfonso d'Este. Sulla pala di Modena sono notevoli le osservazioni di Vincenzo Farinella (in Trento 2014): «Le tre monumentali figure che dominano la ribalta della pala modenese sembrano ardere come torce, bruciate da un fuoco interiore che le scuote e le sconvolge, da un ardore emotivo che le deforma fino allo stravolgimento; una vampata prodotta, nell'animo di Dosso, dal rinnovato confronto, oltre che con Michelangelo, con il Laocoonte vaticano: due testi figurativi impervi (...) di eroismo e patetismo sovrumani (...). Un dipinto dove la naturalezza dei corpi e il potere trasfigurante della luce sembrano collidere, dove il modello michelangiolesco viene citato e allo stesso tempo eluso».

In mostra ci sono opere eccezionali, dalla Psiche abbandonata da Amore di Palazzo Magnani a Bologna, con il possibile riferimento a Laura Dianti (che autorizza la destinazione dell'opera nella Palazzina della Rosa, dove Laura risiedeva), all'Apollo della Galleria Borghese, dipinto certamente a Ferrara nel momento più alto della sua maturità, intorno al 1524, e già nel 1612 nella collezione di Scipione Borghese.

Non si poteva meglio documentare la forza e la temperatura fantastica della «testa sempre infiammata di Dosso» che con opere di piene dimensioni come Giove e Semele della Matthiesen Gallery di Londra, tra Michelangelo e Romanino, la Circe della National Gallery di Washington, dorata e tizianesca, come un idillio mitologico, in concorrenza con la Melissa, in un più libero paesaggio, e il meraviglioso Ercole tra i pigmei, gioco e divertimento, scherzo dove Dosso ritrae Ercole II d'Este nella figura di Ercole che domina una umanità senza umane dimensioni, in un dichiarato gioco di nomi paralleli, nella traduzione pittorica di un passo di Filostrato il Vecchio. Siamo nel 1535, nella piena maturità di Dosso che coniuga erudizione e ironia, coinvolgendo il potere nel suo divertimento.

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