"Quella di lavorare è un’esigenza che fa parte della natura umana: non voglio certo assolutizzare il lavoro, tanto meno il legame tra lavoro e guadagno, ma ogni essere umano avverte intrinsecamente la necessità di fare qualcosa per gli altri, di produrre qualcosa di utile. È un’esigenza che gli esseri umani avvertono fin dalla preistoria e che dobbiamo consentire di esprimere anche ai giovani con autismo che apparentemente non sembrerebbero in grado di farlo. Ce lo dicono i ragazzi e ce lo dicono, indirettamente, anche i genitori. Perché anche se il bisogno non è espresso in maniera verbale, lo si legge negli occhi di chi lo avverte, prima sotto forma di tristezza e poi, una volta appagato, sotto forma di felicità”.
Così il professor Antonio Persico, Global Senior Leader dell’INSAR, l’International Society for Autism Research, e ordinario presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Metaboliche e Neuroscienze dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nel corso della quinta edizione di Italy at INSAR, il workshop sull’autismo organizzato dalla Fondazione VSM di Villa Santa Maria che, nei giorni scorsi, ha riunito a Como oltre trenta dei principali esperti e ricercatori italiani dei disturbi dello spettro autistico.
Un’occasione per confrontarsi tra professionisti di aree diverse e per aggiornarsi sulle evidenze scientifiche più recenti, ma anche per programmare nuove iniziative e progetti volti a migliorare la qualità della vita delle persone con autismo e delle loro famiglie. Proprio in tal senso, uno dei temi su cui è stato posto l’accento è l’importanza di estendere il più possibile, anche attraverso incentivi e sgravi fiscali molto forti per le aziende, l’accesso al mondo del lavoro. “Ci sono una serie di azioni che si potrebbero intraprendere per mettere i ragazzi, anche quelli con disabilità intellettiva molto grave, nelle condizioni di esprimere una propria propensione e di farlo nell’ambito lavorativo. Non si tratta di abilismo, ma semplicemente di umanità, di permettere ad ognuno di esprimere le proprie capacità”, sottolinea il professor Persico.
Autismo, lavoro e qualità della vita
Se oggi per tanti giovani con autismo l’ingresso nei percorsi lavorativi, anche in quelli previsti per le categorie più fragili, resta estremamente complicato, non è detto che le cose non possano cambiare. Anzi. Se il punto di partenza è quello di incentivare le imprese con misure molto più incisive di quelle attuali, il punto di arrivo è quello di attivare dei percorsi che consentano di inserire le persone, anche quelle con maggiori difficoltà, “nel contesto giusto per una loro piena soddisfazione”, prosegue Persico, aggiungendo che le prime esperienze di questo genere stanno dando ottimi risultati. Non solo in termini di inclusione, ma anche di miglioramento della qualità della vita e di riduzione dell’impatto sul servizio sanitario.
“Chi riesce a trovare un inserimento nel mondo del lavoro in un contesto nel quale si sente a proprio agio, raggiunge un livello di soddisfazione tale da far registrare una migliore qualità del sonno, una riduzione dell’aggressività e dell’insorgenza di patologie, una netta riduzione del ricorso ai pronto soccorso”, spiega Persico. “Questo si traduce in un netto miglioramento della qualità della vita anche della famiglia, oltre che in un significativo risparmio per il sistema sanitario”.
D’altra parte, le evidenze scientifiche in tal senso sono chiarissime. “Ci sono studi sulla qualità della vita delle famiglie, tra cui uno che abbiamo fatto noi sullo stress genitoriale nelle famiglie con un soggetto autistico grave, ed è palese che soprattutto le mamme hanno livelli di stress che sono direttamente proporzionali all'infelicità dei figli”, spiega il Global Senior Leader dell’INSAR.
Il passaggio dalla scuola all'ambiente lavorativo
Chiaramente un percorso del genere deve prevedere anche un’adeguata pianificazione, con un passaggio progressivo dalla scuola al mondo del lavoro che consenta di effettuare tutti i test funzionali necessari per valutare in quale contesto una persona è a proprio agio e in quale no e di consolidare, in un periodo di due-tre anni, un’abitudine al nuovo contesto che renda il meno traumatico possibile il passaggio alla nuova realtà. Anche il contesto lavorativo va preparato ad accogliere la persona con autismo in termini ambientali, relazionali e organizzativi.
Un modello che richiede sicuramente uno sforzo collettivo, ma i cui benefici si estenderebbero anche al di là della cerchia ristretta dei soggetti direttamene interessati.
“Un contributo costruttivo di questo tipo non si limiterebbe ad avere impatto sui soggetti autistici, ma lo avrebbe sulla società nel suo insieme”, conclude Persico, “Una società che si sforza di mettere a proprio agio i suoi membri partendo dai più fragili, infatti, è una società in cui anche i più dotati possono esprimere nel migliore dei modi il proprio talento”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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