Fatti, non carriole

Erano le tre e trentadue minuti. Le lancette sull’orologio quella notte si sono fermate lì. Tutti abbiamo pensato che quel tempo non sarebbe mai passato. Non è stato così. Era successo altre volte: il Belice, l’Irpinia, i freddi inverni dell’Umbria. Quello che resta dopo i terremoti in Italia non sono spesso solo macerie e dolore. C’è il dopo. C’è l’interminabile attesa della burocrazia. Le roulotte che invecchiano, i campi provvisori che diventano accampamenti, il freddo delle case di cartone, la transumanza degli sciacalli, dei camorristi, dei palazzinari. Le ferite e i cuori sfregiati che durano una vita. L’unica eccezione, si diceva, era il Friuli. Lì più che lo Stato fu la gente a rimboccarsi le maniche e ricostruire, dopo aver seppellito i morti. L’Aquila, Onna, Paganica, Villa Sant’Angelo, Rovere, Pianola e tutti gli altri paesi calpestati dal terremoto non sono un simbolo, sono qualcosa di più concreto, sono la prova che si può ricominciare. Questa volta la malaburocrazia non ha vinto. Non hanno vinto i gufi, non hanno vinto quelli sempre pronti a godere del tanto peggio tanto meglio. Hanno perso quelli che ridono e quelli che speravano di sfruttare la tragedia come arma politica. Hanno perso tutti quelli che pensano male. Sempre male, comunque male, visceralmente male. L’Abruzzo, questa volta, ha avuto una storia diversa. E forse è il caso di tenerla a mente.
Il post terremoto è il racconto di un’Italia diversa. È passato un anno, c’è ancora molto da lavorare, ma le cose più urgenti sono state fatte. E questo, a denti stretti, lo ammettono anche quelli che vedono Berlusconi come l’anticristo. Non siamo affogati nelle polemiche. Le poche che ci sono state, come quella delle carriole, hanno avuto subito una risposta. Il resto è marginale.
L’Aquila è la vera prova d’orgoglio di questa maggioranza. Il governo c’è stato, ha governato, si è fatto sentire. Non si è mostrato latitante e distratto. Ha trovato un modello di ricostruzione che ha avuto forti consensi anche all’estero. Ha pensato prima di tutto a chi stava senza un tetto. A chi vedeva l’inverno come un incubo. Ha messo su case in fretta dove era più razionale farlo. C’è stata una road map precisa dei lavori. Quello da fare subito, quello da fare domani, dopodomani e per i prossimi anni. Le cose pratiche, le cose utili, le cose belle. Qualcuno ha provato a dire che il centro storico è stato dimenticato, che il medioevo di questa città arroccata su un’altura è scomparso. Non è vero. Solo che per ridare vita al borgo antico serve un po’ più di tempo e cura. Era necessario prima di tutto pensare all’uomo, poi verrà anche la storia. Questa maggioranza ha dimostrato che il suo punto debole sono le polemiche politiche, le chiacchiere che finiscono sui giornali, ma quando si trova di fronte ai problemi veri ritrova lucidità e scompaiono le escort, le «scosse» giudiziarie, le elucubrazioni sul futuro di Fini o sulle liti tra ministri. L’Aquila è un capitale di buon governo che Lega e Pdl non dovrebbero disperdere. È quello che dovrebbero dirsi ogni volta: facciamo come all’Aquila.
Il post terremoto serve a ricordare all’opposizione i suoi valori. Questo Paese non può essere lo scenario di una guerra civile, dove l’unica posta in gioco è annientare il nemico, calpestarlo, metterlo fuori gioco, cancellarlo con un tratto di penna. Non può essere tutto così. L’Aquila è il segno che siamo ancora una nazione.

Non bianchi e neri, guelfi e ghibellini, berlusconiani e antiberlusconiani. C’è qualcosa che ci unisce. Ed è la nostra identità, i nostri luoghi, i nostri morti, il nostro futuro. L’Aquila è il Paese che stiamo provando a ricostruire.

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