Invisibile, imprendibile, introvabile. Eppure presente nella vita di tutti i giorni dei suoi follower. Tanto presente da cambiarla, questa vita, portandoli a seguire una routine di wellness che diventa una missione. Lei influisce sui loro corpi e sulle loro menti, eppure lei non c'è. La sentiamo raccontare da Elliot, che frequenta la sua stessa palestra, Bella, sua madre, e Susie, coinquilina ed ex collega. La protagonista di Crisalide (NN Editore, pagg. 263, euro 19, traduzione di Ada Arduino), l'esordio nel romanzo di Anna Metcalfe - attesissimo perché nominata da Granta tra i venti migliori giovani autori britannici dopo la raccolta di racconti Blind Water Pass - «si nega al mondo». Di lei sappiamo che «Sembrava molto giovane e molto vecchia insieme, una bambina saggia e inquietante, una vecchia maga dei boschi», che era una bambina nervosa e che «il tremito le veniva sempre». Un tremito regressivo, primo indizio di quel percorso di annullamento che la vedrà rarefarsi fino a sparire dalla realtà di carne e sangue, schermata dalla cortina digitale dei social media attraverso cui influisce sul mondo, percorso che passa attraverso ore di «yoga al levar del sole, seguito da parecchie ore in palestra, un lungo pomeriggio trascorso in muta contemplazione e una serata di stretching per essere in grado di camminare il giorno seguente».
Fin qui tutto bene, non fosse che una storia come questa l'abbiamo già sentita - e Metcalfe la emula dichiaratamente - ed è il successo mondiale de La vegetariana di Han Kang (Adelphi, 2016), in cui una casalinga, «la donna più ordinaria del mondo», si trasforma giorno dopo giorno in un vegetale. Una storia in cui molte donne si sono identificate a posteriori e in cui molte altre hanno addirittura intravisto un possibile percorso di vita. A prescindere dalla qualità del romanzo di Metcalfe - una scrittura intrigante e disturbante insieme, asciutta e piena di mistero, a tratti rarefatta come la sua protagonista e una costruzione in cui l'orologio narrativo fa sentire il suo ticchettio con partecipazione analogica ma mai rassicurante - il desiderio di raccontare scelte di estromissione dal reale e dall'oggi sembra aumentare nelle storie che parlano di donne contemporanee.
Anche in MissItalia, nuovo romanzo di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, pagg. 400, euro 20) alla fine le protagoniste sono sempre in altro spazio o in altro tempo ed è vero che agiscono, molto e in prima persona, ma quasi sempre in una dimensione magica, quasi esoterica, in cui troppo spesso siamo state confinate, o dietro le quinte, nel nascondimento della spia, alla impossibilità che ci è stata elargita e non solo nella narrativa. Raramente ci prendiamo la briga di un'eroina concreta, che invece di spalmarsi olio di mandorle per trasformarsi in creatura sotterranea, diriga, fondi, programmi, plasmi, produca, converta, innovi, combatta. Sono verbi da maschi, si dirà. Più probabile però che a fermarci dal prender questa briga, a farci affondare nelle creme per visi freschi, a paralizzarci nel perimetro dei tappetini da yoga sia invece la sindrome delle solite stronze: l'ambizione distruggerebbe il focolare e con esso la compiacenza e l'approvazione generale, facendoci ripiombare nel modello «diavolo veste Prada» che fa davvero troppo anni Novanta, modello imbarazzante per il femminismo terza ondata.
Quando poi il discorso si sposta dalla letteratura al teatro, la traiettoria si curva, ma di poco: in Svelarsi, ad esempio, di Silvia Gallerano, spettacolo sold out a Roma, Milano, Torino, definito una «rivoluzione» al femminile, in cui sono ammesse solo donne (e che il fatto che gli uomini debbano starne fuori sembri dirompente la dice lunga), il discorso di sette performer più o meno nude per tutta la durata dello show - davvero divertente, bisogna ammetterlo, ma nulla più - si concentra su temi assolutamente innovativi come «Sì o no alla depilazione», «Mi si vede o meno nella foto», «Mia madre», «Il senso di colpa», «La parte del mio corpo che odio di più». Anche qui il protagonismo sociale, il senso politico e partecipativo dell'essere donna latita. Eppure, nel dibattito che segue lo show, le donne si fermano, incantate, a battere le mani, affermano di sentirsi parte di una comunità per quella sera e «finalmente mi sono sentita capita» dice una giovanissima in penultima fila in una replica di Milano.
Nella nona edizione del rapporto McKinsey su donne e lavoro («Women in the workplace 2023»), pubblicato pochi giorni fa, il filo conduttore è la decostruzione di quattro miti che tendono a trattenere le donne su un terreno antico, fatto di frustrazione e inferiorità, e che a tratti tendono a riemergere. Si dice che le donne stiano diventano meno ambiziose: non è vero, smentisce il rapporto, sono più ambiziose che prima della pandemia, ambiziose quanto i maschi, e la flessibilità di orari e compiti dà fuoco a queste polveri. Peccato che un altro dei miti voglia che questa flessibilità la desiderino poi solo le donne, ma non è vero: secondo McKinsey agli uomini farebbe altrettanto piacere. Si ripete che il problema è il soffitto di cristallo, ma secondo McKinsey è invece il cosiddetto «piolo rotto»: la scalata ai vertici non parte nemmeno, perché le promozioni non arrivano nonostante tutto. Il mito vuole infine che alle cosiddette micro-aggressioni - ovvero attacchi verbali e commentini più o meno velati alla propria identità, che sia di genere, razza o altro - non siamo ancora diventate brave a reagire: ci fanno sentire insicure, escluse, sotto esame, meditiamo di lasciare l'azienda, ne parliamo male e a volte finiamo in burnout.
Che la fiction comprenda questo burnout e lo rappresenti, benissimo.
Ma che lo incoraggi al punto da creare eroine che per reazione scelgono di sparire o concentrarsi sui peli superflui non solo è un peccato, ma un'occasione perduta per tutte le donne. E potrebbe diventare il prodromo della prossima sindrome: da «solite stronze» a «solite stupide».
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