Ferdi è il meticciato, Totti il mammismo

«Il vecchio Taine affermava che il clima cambia i costumi. Ecco, penso che stiamo subendo un gigantesco cambiamento di clima sociale. Prendi il disastro finanziario che ha terremotato le Borse: chi l’ha detto che al vecchio ordine economico globale debba per forza seguire un nuovo ordine? Può darsi, invece, che ci attenda all’orizzonte un non-ordine: il che non vuol dire disordinato, ma semplicemente non-ordinato secondo la nostra mentalità razionalista. La fine di un mondo non è la fine del mondo». Comincia dalla fine una conversazione nel precoce caldo romano con Michel Maffesoli, allievo di Gilbert Durand e Julien Freund («eravamo opposti, ma da lui ho appreso la lucidità del pensiero e un machiavellismo che mi ha insegnato a guardare la società per ciò che è e non per ciò che vorrei fosse»), fondatore della «sociologia del quotidiano», pensatore eclettico ed eretico secondo i canoni dell’accademia francese, teorico della rinascita dell’immaginario e del legame sociale, della risorgenza delle tribù nelle pieghe delle metropoli, dello spirito dionisiaco nei punti di crisi delle società occidentali.
La crisi, etimologicamente, indica un passaggio.
«Per secoli siamo stati immersi nel pensiero giudeo-cristiano, che interpreta la società non alla luce di ciò che è ma secondo ciò che dovrebbe essere. Questa attenzione, o meglio ossessione verso il pro-getto, ci ha convinto che il bene e la felicità non sono mai nel presente ma in un futuro remoto: la Città di Dio per i cristiani, la società perfetta per le ideologie. Il paradiso in cielo o il paradiso in terra. Ad esempio, l’ideologia della modernità è stato il borghesismo, l’idea fondata sul mito del progresso, sulla scissione tra razionale e irrazionale, tra natura e cultura, tra ragione e passione, e sull’idea dell’individuo, concepito come una monade isolata che entra in relazione con altri sulla base puramente razionale del contratto sociale. Sono convinto che il mito del progresso sia giunto alla sua saturazione. Basta osservare i giovani e la loro rivendicazione del no future, ciò che interessa, ciò che fa legame sociale non è il futuro ma il vivere al presente, l’hic et nunc. Non sono nichilisti, i giovani, ma relativisti nel senso etimologico del termine, vivono per entrare-in-relazione, adorano i grandi riti di isterismo collettivo, i rave party, i concerti musicali, anche i grandi happening religiosi, riversano su Internet e i blog la loro ansia di spirito comunitario. È come se l’energia che abbiamo devoluto alla rincorsa del pro-gresso si riversi nell’in-gresso come energia “presentista” e immanente».
Una recente indagine rivela che, per la prima volta nella storia, due miliardi di adolescenti condividono il medesimo immaginario, composto di tecnologie, tribalismi, mode, cinema. E il suo ultimo lavoro tradotto in italiano, «Icone d’oggi» (Sellerio), è un’analisi dei miti e dei simboli che popolano l’immaginario del mondo contemporaneo.
«Contrariamente a ciò che si crede, la tradizione occidentale, dal cristianesimo all’Illuminismo, favorisce la scissione tra l’immaginazione e la logica, tra l’immaginale e il razionale, e dunque è una tradizione di iconoclastia, per cui bisogna distruggere le icone in quanto producono falsi idoli. E invece...».
E invece?
«La postmodernità in cui siamo immersi, seguendo uno schema vichiano della storia che alterna epoche razionaliste a epoche non razionaliste, segna il ritorno delle icone al centro della vita sociale, come “piccoli dèi parlanti” attorno cui si costruisce il legame sociale. Sono le icone ciò che fa vibrare le masse».
Lei costruisce una sorta di dizionario delle icone, in cui troviamo Harry Potter ed Hermès, il rugbista Chabal e il calciatore Zidane, il design e il Brasile, Google e Michel Houellebecq. Ma si tratta di oggetti creati dal mercato.
«Non mi interessa chi li crea, o se un’icona si forma spontaneamente o è frutto di un processo di costruzione. A me interessano gli effetti. Il successo incredibile di Harry Potter, ad esempio, assieme ai personaggi tolkieniani, simboleggia l’esplosione della necessità del Sacro al di fuori dei confini delle chiese ufficiali. Chabal è un’icona ctonia e terragna, ciò che ci ricorda che l’uomo è un animale, riavvicina l’homo e l’humus, la nostra specie al radicamento nella terra. Houellebecq, poi, è l’icona di devastazione di tutte le sicurezze borghesi. Lui scrive dei nostri incubi e prende a schiaffi l’intellighenzia progressista, attaccata alle piccole sicurezze del razionalismo. Gli intellettuali soffrono della peste moralistica: a forza di pensare come dev’essere il mondo finiscono per rifiutarlo, e dunque sono incapaci di cogliere l’anima mundi, le corde profonde che fanno vibrare la società. Le élite intellettuali sono sconnesse dalla realtà.
Quelle a cui lei imputa un’altra icona, la «barba di tre giorni» come simbolo della negligenza verso il “mondano”.
«Esatto, quelli là. Il pensiero degli intellettuali deve tornare a essere induttivo. Bisogna partire dalla realtà e costruire teorie, non fare il contrario, immaginando il mondo per come ci piace e non per come è, e poi sforzandoci di riplasmare la realtà secondo il nostro sogno/incubo. Lasciar essere il mondo: pensa come sarebbe bello, non avremmo avuto le grandi catastrofi sociali ed ecologiche, non avremmo intellettuali e politici paranoici...».
Alberto Abruzzese riconosce nel suo pensiero una forma di «radicalità». Giuliano da Empoli sostiene che lei sia un autore impolitico che, però, descrive la politica meglio dei politologi. Ne La trasfigurazione del politico (Bevivino), un suo altro testo recente, sostiene che al leader razionale, che procede per argomentazioni ed elabora programmi di cambiamento sociale, si sostituisce la «seduzione emozionale» dei leader che attraverso il carisma “tengono assieme” le persone, «favoriscono il desiderio di aderire gli uni agli altri».
«Esattamente. Per questo personalità come Sarkozy o Berlusconi vincono le elezioni. Nella postmodernità assistiamo all’inversione di polarità rispetto alla vecchia frase di Charles Péguy per cui “tutto comincia come mistica e finisce come politica”. Oggi tutto comincia come politica e finisce come mistica.

Vince il leader empatico, emozionale, teatralizzante, non l’antico burocrate di partito. Ma cosa c’è di più arcaico dell’isterismo delle folle che si scatena durante i grandi meeting politici? L’esperienza di Obama qualcosa ci ha insegnato, o no?».

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