Lo definiscono la Ferrari dei Festival, ma se proprio vogliamo usare la metafora delle quattro ruote allora il Festival di Salisburgo rimanda semmai a una Pagani: dall'alto dei suoi 103 anni, poi, sfiora il sacro. Perché il tratto distintivo di questa manifestazione rimane l'aurea di sacralità, con zenit nel silenzio di tomba che precede ogni concerto. E maggior ragione se a entrare in scena, è accaduto giovedì, per la serata inaugurale, è Daniil Trifonov, pianista la cui presenza non è certa fin che spunta da dietro le quinte, negli ultimi due anni ha cancellato più volte i concerti, non per capricci d'artista, ormai un lusso del passato, ma per una salute che capita vacilli nonostante i soli 32 anni.
Dopo la lunghissima assenza, è atteso in Italia il 24 agosto a Merano, quindi in gennaio alla Scala di Milano e in maggio a Roma.
Per la doppia apertura del Festivalone austriaco, nella Sala Grande c'era Trifonov, mentre nella Haus für Mozart andava in scena la prima delle Nozze di Figaro di Mozart con la direzione di Raphael Pichon e la regia di Martin Kusej che ha ambientato l'opera in un hotel fra gangster, sesso, droga, orrore e commedia. Sold out in entrambe le sale, e per la maggior parte dei centosettantanove eventi in calendario entro il 31 agosto, è dunque realistico prevedere la vendita dei circa 230mila biglietti a disposizione, una voce importante (i biglietti costicchiano) di un budget che supera i 60 milioni.
Di qua, il pubblico di Trifonov, 2179 amanti delle prelibatezze senza parole, della musica pura. Di là, le Nozze in una serata confezionata per politici e mondanità varia, un po' come la nostra Prima della Scala erano schierate le massime autorità austriache, dal capo di Governo in giù, e in rappresentanza dell'Europa c'era la presidente Ursula von der Leyen. Forse il fisico quantistico e premio Nobel Anton Zeilinger avrebbe seguito più volentieri il concerto, anziché il melodramma data la cucina di Kusej e considerato quanto aveva osservato al mattino durante la cerimonia di lancio del festival. «Prendiamo ad esempio il Parsifal: dov'è il senso del mistico quando Kundry muore in modo moderno?», queste le parole del fisico preoccupato per le letture non rispettose di musica e testo e che dunque portano «l'opera d'arte a perdere la sua complessità». Parole, le sue, nel mare dei discorsi celebrativi e la narrativa dei politici uguale ovunque, si toccano i temi caldi del momento, dalla crisi del clima, all'emergenza migrazioni, guerra alle porte dell'Europa con cuore che batte per il popolo ucraino e indice puntato contro «l'aggressore, un dittatore». Nessuna russofobia, per fortuna, estesa all'arte, dunque Trifonov salvo anche se in testa al Curriculum Vitae rimarchi (giustamente) il suo essere russo, identità ormai difficile da indossare. Ma lui pare un dono del cielo più che frutto di un territorio tanto è fuori scala, di fatto è l'esito di secoli dell'alta scuola pianistica russa: ricordare le sue radici è un diritto e dovere. E poi, incarnando l'arte nella sua essenza, il suo è un nome che non suscita commenti se non di ordine artistico.
Trifonov sbuca da dietro le quinte con la stessa rapidità del ragazzino di quindici anni fa, anche gli inchini sono frettolosi come sempre, pure la generosità nel concedere bis, ma il viso tesissimo ricorda il prezzo che si paga quando sei il numero uno. Va dritto al pianoforte, e ancora prima di toccare lo sgabello mette le mani sulla tastiera, praticamente vi si tuffa e inizia a forgiare i suoni, uno a uno, come i nostri migliori artigiani tricolore.
Il suo pianismo è capace di potenza e di pianissimi sussurrati, di suoni spigolosi ma anche di burro. E così, spalanca le porte dei vari mondi compositivi, e noi dietro a lui si va per pianure, salite e discese, paradisi e inferni musicali. Mette tutta la sua anima sul piatto. Si dà completamente. Alla fine del concerto non osi raggiungerlo in camerino per il saluto che per tanti artisti è il sale della carriera. Che altro chiedere?
E poiché di Trifonov ce n'è uno e va colto fin che c'è, così come le Nozze vengono replicate, il sovrintendente della Scala Meyer giovedì ha optato per Trifonov, stesso dicasi per Cecilia Bartoli che per la verità era nascosta in un palco e forse avrebbe voluto godersi quella magia da post-concerto ma i fan l'adocchiano e inseguono.
Perché di fatto due dei pilastri su cui si regge il festival sono italiani. La cantante Bartoli, dal 4 agosto impegnata nell'Orfeo ed Euridice oltre che direttrice artistica del festival di Pentecoste da ben 11 anni.
Quindi Riccardo Muti, che dirige dal 13 agosto i Wiener Philharmoniker, l'orchestra con cui ha un rapporto esclusivo al punto che sarà lui nel 2024 a dirigerli per i 200 anni dalla prima composizione della più iconica delle Sinfonie (con l'Inno alla Gioia), la Nona di Beethoven.
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