Alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino e allindomani del Tour de France e degli Europei di calcio, si riparla di sport: tifosi frementi, sponsor rivali, come sempre, discorsi politici. Colgono lessenziale?
Non tutte le attività fisiche, le forme di «vita sana» o esercizio sono sport; non ogni sport è agonismo. La cultura europea ha sempre dato alla competizione sportiva un ruolo centrale. Dalla prima antichità, motivazione essenziale della competizione, retta dal principio agonistico, è la gloria di battere i concorrenti, indissociabile da ciò che gli Antichi chiamavano «prezzo della vittoria». In greco antico, il premio di una gara è athlon, sostantivo neutro associato al maschile athlos, «prova» (le «fatiche» dErcole sono dette anche athloi), da cui deriva il lessico dell«atletismo».
Anche se talora la guerra è stata considerata come lo sport (e se lo sport è servito per addestrare alla guerra), la gara non è atto di guerra. La sua essenza è opporre atleti considerati allinizio come equivalenti. È il confronto che dai pari fa emergere i migliori, rendendoli più solidali fra loro. Lo sport insegna che lotta è bene, che la vittoria è un valore in sé, ma anche che lavversario non è il nemico.
Oggi lo sport è molto cambiato. Ne sono derivate frequenti critiche, ingiuste quando bersagliano professionismo, compensi agli sportivi e spettacolarità delle loro manifestazioni, delle quali sono invece deprecabili eccessi o derive. A certi detrattori dello sport spiace visibilmente leminente popolarità - che il popolo, come sempre, sentusiasmi per le gare (ma ormai di che cosa ci si può entusiasmare?). Il prestigio del campione sassocia alla fierezza del gruppo dappartenenza: gareggiare implica un mondo comune, valori comuni. Ancor più ingiuste le critiche allidea di gara («elitismo sportivo») e quelle connesse alla diffidenza cristiana per il corpo. Mentre è giusto criticare laffinità fra istituzione sportiva e capitalismo industriale, che risulta dal rilievo delle poste in gioco, ma anche dal fatto che, storicamente, il produttivismo economico e mercantile è andato di pari passo con la sistematica ricerca di prestazioni quantificate.
Svalutato dal cristianesimo, quando i Padri della Chiesa scagliano lanatema contro gli atleti, accusati desaltare paganamente la vitalità e di empie, vane distrazioni, è coi Lumi che il corpo torna, come strumento della tecnologia nascente, mentre i poteri pubblici badano alla «crescita parallela della sua utilità e alla sua docilità» (Michel Foucault). A scuola, in laboratorio, in officina e in caserma, il corpo va messo in forma secondo le esigenze normalizzatrici del sistema dominante, o reso oggetto di assidue misure quantitative per aumentarne la resa. Ha così prevalso la visione bio-meccanicista delluomo, che fa del corpo una macchina, da gestire per il suo rendimento. Lo sport è divenuto la «tecnica perfezionata di rendimento corporeo» di cui parlava Jacques Ellul, che aspira solo al massimo profitto, come la produzione commerciale.
Lo sport ha un doppio volto, a seconda che voglia indicare il miglior concorrente (il «campione») o registrare la miglior prestazione (il «primato»). Obiettivi diversi: campione non è chi ha di «più in lui», ma chi fa qualitativamente meglio degli altri. Invece il primato è solo quantitativo. È campione un essere vivente; è primato una misura astratta. Fra i greci sincoronava il campione, ma nessuno badava a che distanza avesse lanciato il giavellotto o in quanto tempo avesse corso. La vittoria era battere concorrenti in carne e ossa; non battere un primato, cioè sostituire una cifra con unaltra. Nello stadio, allora, non si misuravano distanze e durate; nello sport, ora, si misura tutto. Il primato è prestazione; il campione è eccellenza: non tende al più, ma al meglio.
Con la sua concezione del corpo, la cultura sportiva antica era connessa non solo a una cultura estetica e religiosa, ma anche a una metafisica della finitudine. È questo legame che si spezza col concetto di primato come infinito progresso. Da questo punto di vista cè unevidente affinità fra culto del primato, con lossessione della velocità o della misura, e ideologia del progresso. Credendo di sottrarsi alle leggi naturali, luomo moderno spera nellinfinito allontanarsi dei limiti fisici. Sogna la perpetua perfettibilità corporea. Modellato sullidea di progresso, il culto del primato sfocia nella ricerca dun sempre più, duna progressione lineare e ascendente spinta sempre oltre. Il feticismo del primato avanza di pari passo col feticismo della merce e col feticismo della crescita. Lidea soggiacente è quella del limite impossibile, del trionfo dellillimitato.
Anche il corpo dopato (ma il doping dove comincia?) trova però evidenti limiti biologici. Più primati si «battono», più la curva dei primati tende a divenire asintotica e langolo dascesa cala progressivamente per farsi orizzontale. Ha senso un primato battuto dun centesimo, un millesimo di secondo? Cè da chiedersi se gli sport principalmente fondati sulla ricerca del primato non siano condannati: le prestazioni sportive sono molto migliorate, ma non miglioreranno in eterno: nessuno alzerà mai dieci tonnellate a mani nude o correrà i cento metri in un secondo!
«Virtù e saggezza rimandano al corpo e senza corpo non cè virtù né saggezza», diceva nel 1917 Mao Zedong, aggiornando a suo modo Giovenale. Oggi il corpo è insieme «liberato» e «reificato», riabilitato e asservito, sovresposto e medicalizzato, squartato fra idea di bellezza artificiale o eterna giovinezza e nuove norme igieniste di gestione di sé, dispensate dai bio-poteri. Oltre che dato naturale, il corpo è anche prodotto sociale.
Alain de Benoist
(Traduzione di Maurizio Cabona)
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