Fin da Omero la letteratura è un eterno ritorno

L'autore del romanzo "Trovare rifugio" riflette sui "territori di appartenenza" dei grandi scrittori

Fin da Omero la letteratura è un eterno ritorno

Ritorno. Ritorni. Al singolare o al plurale, mi sembra che questa parola sia, innanzitutto, la definizione stessa della letteratura.

Scrivere implica sempre, infatti, almeno nella mia concezione, il ritornare a qualcosa: un'emozione sepolta, un ricordo amaro o felice, il tempo e il luogo di quell'emozione o di quel ricordo... significa, in fondo, ritornare da qualche parte.

Che qualche parte esista oppure no, del resto, che sia tangibile o puramente mentale, purché si tratti di un territorio di appartenenza allo scrittore.

Ed è per questa ragione che lo scopo di ogni scrittore, secondo me, è di trovare il suo territorio. Il territorio della sua narrazione. O piuttosto, di ritrovarlo. Marcel Proust aveva Illiers-Combray, Chateaubriand aveva Combourg, William Faulkner aveva il Mississippi, Gabriel García Márquez aveva il paese di Macondo. Tanti verdi paradisi, avrebbe detto Charles Baudelaire, tante jungle intime dove sbucano i fiori del male cari a ogni scrittore, ma anche piante meravigliose, i semplici, con le quali prepara le sue pozioni piene di forza, perché altri fiori nascano, si spera, nell'animo e nel cuore del lettore.

Lo schema di scrittura come ritorno è antico. E per un appassionato di mitologia come me è affascinante come l'antichità. Funziona sin dagli albori della letteratura, all'inizio come forma orale, e bisogna evocare Omero e quella magnifica parola greca che è «nostos», che solo tardivamente ci ha donato la nostra parola nostalgia, che significa bene tanto ritorno quanto arrivo e percorso.

Cos'è, quindi, in sostanza l'Odissea, se non lo spiegamento, all'infinito o quasi, del motivo del ritorno, o almeno il tentativo di ritorno che condiziona la possibilità stessa della narrazione? Il ritorno di un veterano alla sua patria e alla sua famiglia, alla sua Itaca, alla sua Penelope, al suo Telemaco, dopo una guerra che è durata troppo. Ritorno necessario ma osteggiato, senza sosta, dagli dei e dalle loro trame, anche attraverso l'irruzione del desiderio, o perfino della promessa di immortalità, così seducente, proposta da Calipso. Ritorno che, sì, è anche rischioso, come è rischiosa la scrittura. Ritorno sempre impedito, come una metafora della scrittura che è, anch'essa, così spesso impedita dovendo affrontare i numerosi ciclopi e le così tante sirene della vita che cospirano incessantemente per impedirvi di scrivere. Ritorno differito, insomma, ma in questo caso positivo, attraverso il piacere della scrittura, come si differisce la fine esplosiva di una gioia nella tensione che permette, grazie a quel tempo costantemente dilatato della scrittura, all'intreccio di dispiegarsi fino al sanguinoso rimpatrio nel palazzo di Itaca, poi amoroso con la sposa, magnificamente ringiovanita e abbigliata dalla dea Atena, nel nido del letto nuziale intagliato in un ulivo di cui l'eroe è il solo, insieme alla sua donna, a conoscere il segreto.

L'Odissea o la storia di un ritorno... in un letto? Non c'è nulla di riprovevole in questa immagine, anzi, è proprio il contrario, quando si tratta di letteratura. La letteratura è il letto: ci sarebbe da scrivere un saggio, al riguardo. E non soltanto uno... «Per molto tempo sono andato a letto presto», scriveva Proust come incipit della ricerca letteraria che avrebbe occupato la sua vita. E che ancora occupa noi. In francese, il «letto» e «io leggo» hanno quasi lo stesso suono. E non c'è mai il caso nella scienza delle parole.

Parlando di ritorno, del resto, non posso dimenticare il nome della casa che ci accoglie, La Nave di Teseo, il vascello di Teseo, in francese, che rimanda a un passaggio di Plutarco in cui si racconta come l'imbarcazione dell'eroe mitologico, salpato per combattere il Minotauro, fu custodita, al suo ritorno a Creta, come una reliquia dagli ateniesi, per secoli. Ancora una storia di ritorni. Si racconta che gli ateniesi sostituissero, man mano che si usuravano, i vecchi pezzi coi nuovi. Con una domanda in sospeso: una volta che ha perduto tutti i pezzi originari, l'imbarcazione è ancora la stessa? Noi pensiamo di sì, poiché è la memoria che conta, il ricordo, ovvero quel ritorno mentale che permette alla storia di continuare a vivere, di essere ascoltata, di essere scritta.

Io sono qui, a Milano, a causa di un libro. Dovrei dire, grazie a un libro. Il titolo è Trouver refuge, Trovare rifugio. E quando Elisabetta Sgarbi mi ha chiesto di scrivere un testo per la Milanesiana e mi ha detto il tema, io l'ho scritto, en retour, senza indugio, niente sarebbe stato più appropriato, dato che questo libro nasce non soltanto dall'idea di un ritorno ma esprime l'idea del ritorno. In un territorio assolutamente reale dove volevo riandare e dove la scrittura mi ha permesso di ritornare. Un luogo che deve molto alla lettura di un libro, Il nome della rosa di Umberto Eco, uno dei naviganti mitici di questa Nave di Teseo, che ci riunisce stasera. Un libro che, alla fine dell'adolescenza, mi ha colpito così tanto che mi ricordo, appena arrivato a Parigi per studiare, a 17 anni, di avere inseguito l'autore, coi miei compagni, fino alla scalinata del Collège de France dove aveva tenuto una conferenza. Il grande Umberto aveva tranquillamente parlato con noi dell'importanza delle virgolette basse e della libido sciendi, prima di infilare la sua imponente statura dentro una Fiat Cinquecento. Insomma, è il mio ricordo...

Trouver refuge che si svolge in un luogo ancora un po' segreto del Mediterraneo, il Monte Athos, un territorio reale che tuttavia pare immaginario, quasi isola simile al giardino dell'Eden, disseminato di venti monasteri che arrivano direttamente da Bisanzio deve molto a Umberto Eco. E deve molto anche all'idea di ritorno.

In questo romanzo, un uomo ormai padre di famiglia, minacciato da un potere politico autoritario, in atto in Francia da qualche anno, decide di ritornare nel territorio esplorato quando aveva vent'anni, per rifugiarsi lì con la moglie e la figlia. Rifugio. Ritorno. Stesso prefisso, anche l'idea di un qualche parte da raggiungere. Un giardino protetto, un hortus conclusus, come si diceva nel Medioevo, dove sappiamo che tutto quello che ci insegue, tutto quello che ci tormenta sarà, finalmente, lontano da noi. Un territorio soltanto nostro dove fare piazza pulita e scongiurare il caos.

E se anche questa fosse una definizione della letteratura?

(Di Christophe Ono-dit-Biot. Traduzione di Cettina Caliò)

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