Per l'ennesima volta, gli entusiasti delle criptovalute sono rimasti delusi: la brusca corsa al ribasso della "bolla" del valore di cripto-asset come Bitcoin e Coinbase e l'esplosione di Terra, per molti cryptomasters del web paragonata a una vera e propria miniera d'oro, hanno mostrato una volta di più la reale natura delle valute digitali fondate sulla blockchain. Esse sono tutto fuorchè vere monete e sono assimilabili a prodotti obbligazionari dal forte contenuto speculativo.
Che sia la fuga dei miliardi russi depositati nel pozzo nero della blockchain? O un segno che la bolla non poteva reggere? O ancora un'uscita di chi vuole spostarsi in massa su asset più sicuri in una fase di incertezza globale? Probabilmente un mix dei tre fattori ha causato questo problema. Creando dunque un pregiudizio sulla sostenibilità finanziaria delle criptovalute.
Negli ultimi anni la corsa alle criptovalute è stata dopata dal denaro facile in cerca di rendimenti vigorosi e "facili" di un sistema finanziario alimentato dalle banche centrali. Il biennio pandemico ha messo in campo una nuova corsa al rafforzamento di tale tendenza. Si poneva però il problema evidenziato nel giugno 2021 da Paolo Savona, presidente della Consob, sulla totale anarchia delle monete “virtuali” che da un lato mirano a prescindere dal controllo di un emittente centrale di matrice pubblica che ne certifichi la validità (non avendo dunque la funzione di "riserva di valore" propria di una moneta) e dall'altro si muovono fuori dai circuiti finanziari istituzionali. “L’informatica finanziaria è una lampada prodigiosa dalla quale è uscito il Genio”, ha affermato eloquentemente Savona. Una volta sdoganato il processo di creazione di asset virtuali attraverso il mining, tale “Genio” non è più controllabile, perché “agisce nella sfera immateriale (o infosfera) controllabile solo cambiando protocollo di scambio delle informazioni, ossia frammentando l’unità del mercato mondiale”. Al massimo, come aveva intuito Mark Zuckerberg con il progetto del Libra, le criptovalute possono giocare un ruolo come mezzo di pagamento in un sistema chiuso e certificato da convenzioni comuni. Nulla più per il resto.
Savona del resto ha fatto notare che “la funzione redistributrice, propria della democrazia, e quella produttiva-commutativa, propria del mercato, risultano alterate dalla creazione di potere di acquisto digitalizzato, ancor più se collocato in una contabilità perfettamente decentrata”. Un processo che porta il sistema al rischio di perdite miliardarie. Una bomba più ancora che una bolla. Capace di rovinare milioni di persone senza possibilità di salvataggio dall'esterno. La sostenibilità finanziaria di questi asset è dunque molto incerta. Alle parole di Savona vale la pena aggiungere quelle di Fabrizio Carbonetti, docente di Diritto Commerciale all’Università La Sapienza di Roma, managing partner dell’omonimo Studio specializzato nel settore finanziario, che parlando con Fortune Italia aveva definito le criptovalute una "bolla speculativa destinata ad esaurirsi" sulla scia di meccanismi di mercato.
In una fase in cui la guerra in Ucraina, la crisi energetica e l'incertezza nella ripresa globale aumentano la volatilità, il mercato ha prezzato il rischio delle criptovalute: semaforo rosso per bitcoin e compagni, rinviati a settembre.
Una finanza più sostenibile potrà e dovrà necessariamente affrontare il discorso del governo delle criptovalute aprendo al legame con l'economia reale e con obiettivi non puramente speculativi. L'intervento di un regolatore pubblico capace di fissare paletti operativi può essere dirimente per dividere ciò che è definibile, nel mondo delle criptovalute, come asset certificato con garanzie legate all'emittente (mancanti in molti casi come i bitcoin), e ciò che è puro prodotto speculativo della finanza ombra. Il profilo del legame tra criptovalute e sostenibilità non sarebbe completo se non si considerasse il fatto che oggigiornoi le criptovalute sono molto indietro nel rispetto dei criteri Esg sulla sostenibilità ambientale, sociale e di governance. Sul primo fronte, perché a livello globale le criptovalute sono un asset fortemente inquinante: l'attività di mining complessivamente assorbe una quantità di energia pari a quella consumata annualmente in Stati come Egitto e Polonia, classificandosi al ventiseiesimo posto su scala globale con 136 TWh di consumi. Inoltre, secondo i dati del Bitcoin Electricity Consumption Index dell’Università di Cambridge – due terzi dei miner si trovavano in Cina, che ricava circa il 60 per cento dell’energia dal carbone, la fonte fossile più inquinante.
Sul fronte sociale, chiaramente la postura speculativa di molte criptovalute impedisce di renderle fruibili per disegni di valorizzazione della crescita dell'economia reale. La governance, invece, come detto è totalmente trascurata. Anche per questo, nell'ora della difficoltà, il mercato ha puntato sull'uscita dalle criptovalute.
Ancora indietro su diversi parametri chiari e identificabili nei sistemi finanziari moderni. Strana rivoluzione, quella attesa da tredici anni, dall'emissione dei primi bitcoin, e che alla prova di ogni crisi si mostra sempre più immatura.
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