C' è l'uomo da palco, Enrico Mattei. C'è l'uomo che lavora dietro le quinte, Eugenio Cefis. C'è l'uomo che indirizza la storia con il dossieraggio, lo spionaggio e l'omicidio, se necessario: se è bravo, non sapremo mai il suo nome. Rischia di essere ammazzato sempre e comunque: perché sa troppo oppure perché non sa abbastanza per parare il colpo finale. Ci sono interessi convergenti che trovano realizzazione con la morte del rivale in comune. C'è la partita sporca da pulire o quella pulita da sporcare. C'è il potere e c'è l'equilibrio, e cosa direste se, per conservare l'equilibrio, il potere dovesse ricorrere a mezzi infami? Ci sono nazioni sovrane. Ci sono nazioni in cui la sovranità è simulazione: prendete l'Italia, finge di aver vinto la guerra, ma l'ha persa, l'ha persa eccome. Volete una prova che non sia la presenza di basi militari straniere sparse per tutta la penisola? Andiamo alla fine degli anni Cinquanta. A molti, perfino in Italia, pare sbalorditivo che Enrico Mattei, presidente dell'Eni, pensi a un Paese libero da influenze straniere, con una crescita da ottenersi attraverso l'indipendenza energetica, e dunque via alle trivelle nella Pianura Padana e in giro per il mondo, ovunque vi sia il sentore di oro nero da estrarre o acquistare e distribuire. Mattei, ex capo partigiano, come il suo braccio destro Eugenio Cefis, arriva nel 1945. È designato quale liquidatore dell'Agip, l'ente idrocarburi del fascismo. Non ci pensa neanche, perché vede il futuro, e il futuro sono i pozzi. Con una politica aggressiva, Mattei fa affari clamorosi con l'Unione Sovietica, spiazza le multinazionali americane, batte in velocità la Francia nelle ex colonie o nelle colonie in cerca di libertà. L'Eni diventa uno Stato nello Stato. Con le sue cordate (in politica si direbbero correnti), i suoi media di proprietà o addomesticati a colpi di pubblicità, i suoi servizi segreti, i suoi tecnici. Il dominus è Mattei. Ma la longa manus è Cefis, abile imprenditore. I due si capiscono bene: Mattei apprezza la disciplina militare e Cefis, prima di entrare nelle formazioni partigiane della Val d'Ossola, era stato un ufficiale di carriera con studi alla prestigiosa Accademia di Modena. Mattei usa i partiti come il taxi: ne prende uno, lo paga, scende. Cefis invece ne ha paura: vorrebbe che i politici si facessero gli affari loro, gli piacerebbe muoversi come un imprenditore privato. Ma i soldi che ha in tasca sono pubblici e li usa anche per scalare Montedison dopo aver abbandonato Eni. Ai partiti risponde anche Cefis, specie alla Democrazia cristiana, ma sa che nessuno ha l'interesse a giocare senza trucchi con lui. Alla fine sarà un capro espiatorio, dunque meglio cambiare aria prima di essere scaricato. Ancora giovane, nel 1977, Cefis si trasferisce in Svizzera e si occupa dei suoi interessi in Canada e Argentina. D'altronde Cefis ha anche l'aspetto di uno che sa aspettare le mosse del potere, per approfittarne. Vogliono uccidere Mattei? Non è affar suo. Se per caso poi ne prenderà il posto, chi potrà incolparlo? E così l'aereo di Mattei cade a Bascapè, provincia di Pavia, mentre inizia la manovra di avvicinamento a Linate. È il 1962. Per i testimoni, parecchi, il velivolo è esploso in volo. Per la versione ufficiale, definitivamente smentita dalle indagini del giudice Calia a fine anni Novanta, l'aereo si è schiantato al suolo.
Più difficile capire la vita dell'uomo che ha ucciso Mattei, un ex fascista bravo nel riciclarsi e nel rimanere sempre a galla. La sua storia, immaginaria ma inserita in un ciclo di eventi reali, è raccontata da Federico Mosso nel romanzo Ho ucciso Enrico Mattei (Gog). Molto documentato, con il passo di volta in volta della inchiesta giornalistica, della narrativa storica o della parodia del documento burocratico, Ho ucciso Enrico Mattei fa davvero un'ottima impressione. Innanzi tutto, esplora le possibilità narrative degli intrighi dell'Eni. Non è il primo a farlo, ma è il primo a farlo con convinzione. I personaggi di fantasia si mescolano a quelli reali senza alcuna fatica: il lettore non stenta a credere a equilibrismi e crudeltà inventate ma plausibili. Molto belle sono le parti di passaggio, una sorta di sogno prolungato in cui Mattei, accompagnato da un cane a sei zampe, il simbolo di Eni, vive il presente sotto forma di visione allegorica. Pasolini e Petrolio sono rievocati ma non sono il cuore dell'opera così come la morte del poeta non fu il culmine ma solo un momento della guerra intorno a Eni. Il libro non è a tesi. Ma Mosso mette sul tavolo le sue carte: la mafia uccide Mattei per fare un piacere a tutti, dalle multinazionali americane dell'oro nero ai partiti politici, forse perfino a Cefis. I terroristi dell'Oas sono chiamati a un ruolo di figuranti, giusto per avere qualcuno sul quale scaricare ogni colpa se qualcosa dovesse andare storto. La prova generale, in Ho ucciso Enrico Mattei, sarebbe stata la morte in un finto incidente aereo di Hammarskjöld, secondo Segretario generale delle Nazioni unite, abbattuto nel 1961, un anno prima di Mattei, per evitare che ottenesse un cessate il fuoco tra le truppe regolari del Congo e gli scissionisti del Katanga. In ballo c'erano milioni in miniere di minerali preziosi, diamanti ma anche uranio.
Nel romanzo vediamo i guasti del sistema italiano sul nascere: e nascono già enormi. Eni è una macchina che produce fondi neri da distribuire alla politica. Montedison è un pasticcio indistricabile: un'azienda privata conquistata con capitale pubblico. Un'azienda pubblico-privata che Cefis, con disgusto crescente, è costretto a gestire come se fosse pubblica e basta: col risultato di colarla a picco, tra rami d'azienda tenuti in vita artificialmente, stabilimenti costruiti in zone prive di infrastrutture, personale pleonastico.
L'uomo senza nome fa girare la ruota degli avvenimenti: ne resterà inevitabilmente schiacciato? Vi
lasciamo scoprire da soli come vanno a finire le cose. Ho ucciso Enrico Mattei non è un giallo e non è un saggio ma concilia bene gli aspetti da thriller con quelli non fiction. Risultato: un libro complesso ma appassionante.
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